I dati emersi da uno studio appena pubblicato dimostrano chiaramente il peggioramento delle condizioni lavorative dei giovani, le minori opportunità di occupazione e la crescita di un fenomeno – quello del lavoro precario – che ha contagiato tutti i settori, anche quello dell’impiego pubblico.
Intervista ad Ugo Trivellato*
Professore, è d’accordo con l’opinione del Forum DD, ovvero che la perdita del potere negoziale del lavoro, negli ultimi trent’anni soprattutto, sia una delle cause dell’aumento della disuguaglianza insieme all’inversione a U delle politiche pubbliche e al cambiamento del senso comune?
Sì, penso che il depotenziamento del potere contrattuale dei lavoratori sia una delle cause dell’aumento della disuguaglianza. Accanto ai tre fattori che ha richiamato, ritengo dobbiamo considerarne un altro, che in parte li alimenta: il cambiamento a livello mondiale dei modi di produrre e della possibilità per i lavoratori di avere una forte voce collettiva. Semplificando, possiamo chiamare questo fattore “rivoluzione digitale”, nel senso che essa poggia sull’Information & Communication Technology (ICT) e, insieme, si intreccia con i processi di globalizzazione, di finanziarizzazione dell’economia, di trasformazione dei lavori e del lavoro. L’aspetto forse più evidente – e pervasivo – di questa “rivoluzione” è il cambiamento di scala del tempo e dello spazio, la loro compressione. Per tutte le attività digitalizzate, e digitalizzabili, l’unità di misura del tempo è il minuto, quando non il secondo; e lo spazio, la distanza, per molte attività economiche diventa irrilevante o comunque un ostacolo di modesto peso. Le faccio un solo esempio. Negli Stati Uniti il sistema sanitario, anche dopo la “riforma Obama”, mantiene un impianto privatistico, si basa cioè su contratti fra compagnie di assicurazione e utenti: le persone e le imprese presso le quali esse lavorano. Ora, le compagnie che assicurano i dipendenti delle grandi università (ma immagino che lo stesso accada per altri comparti) per i referti degli esami strumentali che possono essere digitalizzati – la grandissima parte – utilizzano medici residenti in India, ai quali inviano gli esami e dai quali ricevono i referti via web. La ragione? Ricorrere a medici indiani costa meno che rivolgersi a medici statunitensi.
Con la rivoluzione digitale, molti lavori possono essere svolti in qualunque parte del mondo. Tempo e spazio non sono più ostacoli e i contratti di lavoro si definiscono tra un datore di lavoro che opera a livello mondiale e sindacati locali, al limite singoli lavoratori. Ciò indebolisce notevolmente i sindacati.
E’ stato appena pubblicato uno studio condotto da lei e da altri tre autori (Martina Bazzoli, Sonia Marzadro, Antonio Schizzerotto, vedi nota[1]) che guarda a due gruppi di lavoratori in due periodi temporali diversi e che evidenzia il cambiamento delle storie lavorative dei giovani negli ultimi quaranta anni. Ci racconta di questo studio?
Abbiamo preso in considerazione un campione di giovani trentini che sono entrati nel lavoro in età compresa tra i 15 e i 29 anni in due distinti periodi, distanti mediamente poco meno di vent’anni, e abbiamo guardato alla loro storia lavorativa negli otto anni dall’ingresso. I due gruppi di giovani sono entrati nel lavoro rispettivamente nei primi anni ‘80 e alla soglia del 2000. Entrambi i gruppi mostrano una notevole mobilità del lavoro, passano cioè da un lavoro all’altro diverse volte, e molto spesso con delle interruzioni tra un lavoro e l’altro. Quello che soprattutto interessa, tuttavia, è altro: capire che cosa è cambiato nell’arco di vent’anni, tra i giovani entrati intorno agli anni ’80 e quelli entrati intorno agli anni 2000.
I cambiamenti salienti sono due. Il primo: cresce di molto la loro scolarità. Se dividiamo i giovani in due blocchi, quelli con alta scolarità (diplomati e laureati) e bassa scolarità (gli altri), nella prima coorte, quella anziana, i giovani del primo blocco erano il 40%, mentre nella seconda coorte sono saliti al 64%. E questa forte crescita della scolarità (che adesso sta rallentando, allontanandoci nuovamente dall’Europa) è dovuta principalmente alle donne, che raggiungono oggi in media livelli di istruzione più alti degli uomini.
Dall’altro lato, c’è un profondo cambiamento della struttura del lavoro. Cresce il lavoro dipendente privato, mentre scendono quello pubblico e il lavoro autonomo. Il lavoro dipendente, e per molti verso anche il lavoro autonomo, però non è più “quello di una volta”: cresce la frammentarietà del lavoro. Abbiamo stimato quanti sono gli episodi di lavoro negli otto anni iniziali di storia lavorativa e quanto durano. Ebbene, il numero medio di episodi di lavoro passa da appena poco più di 4 a 5, un aumento vicino al 20%. All’opposto, la durata media degli episodi si riduce parecchio, da 17 mesi a 13 mesi. Non sorprendentemente, quindi, il numero degli episodi lunghi cala decisamente, quello degli episodi brevi cresce di molto. Infine, cresce il numero di mesi in cui il giovane non lavora, e crescono gli episodi di non lavoro.
In un arco di otto anni (96 mesi) nella coorte anziana i mesi lavorati sono 70; essi scendono a 65 nella coorte giovane. Questo processo è molto forte soprattutto per diplomati e laureati. Nella prima coorte i laureati avevano in media tre episodi di lavoro, che in media duravano 20 mesi; nella seconda coorte hanno 4,3 episodi di lavoro che durano in media 11 mesi. I laureati e diplomati lavorano, dunque, circa 50 mesi, mentre per i 46 mesi restanti – per poco meno della metà degli otto anni – sono senza lavoro. Ovviamente, per i giovani che entrano nel lavoro ci possono essere delle finestre di tempo dedicate alla formazione, all’aggiornamento, ma esse possono dare conto al più di una modesta frazione della marcata contrazione del numero dei mesi lavorati.
Nello studio noi distinguiamo poi tra lavoratore dipendente nel settore pubblico, lavoratore dipendente nel privato, lavoratore autonomo e una quarta categoria, quella del lavoratore con una storia di occupazione molto accidentata, precaria e saltuaria, che chiamiamo “precario”. Ora, passando dalla coorte anziana a quella giovane, è importante notare che non è tanto quest’ultimo gruppo a essersi ingrossato; si verifica, invece, una sorta di contagio, sicché anche tra i lavoratori dipendenti, soprattutto nel settore pubblico, e tra gli autonomi è cresciuto il numero di rapporti precari. Per sintetizzare, c’è una crescita complessiva della mobilità/precarietà, che non si concentra solo nell’area dei lavoratori che abbiamo classificato come strettamente “precari”, ma aggredisce il pubblico impiego e il lavoro autonomo.
Prendendo come riferimento le due coorti studiate, crede che i più giovani abbiamo la stessa consapevolezza di sé come lavoratori rispetto a quelli della generazione precedente?
Domanda alla quale non è facile rispondere. Il nostro studio non offre evidenze sull’argomento. Le dò la mia impressione. Penso che i più giovani abbiano la stessa consapevolezza di sé, ma non la stessa convinzione che un’azione collettiva possa aiutarli a mutare le cose. Sono più scettici sulla possibilità di un impegno collettivo, perché l’esperienza che hanno fatto, in particolare, quella dei giovani con rapporti di lavoro più fragili – i co.co.co, le partite iva, adesso i contratti dei rider – li porta al disincanto. Per loro è difficile organizzarsi collettivamente, nei rapporti con la controparte non sono in grado di presentarsi come “collettivo”. E percepiscono che il sindacato, e più in generale la politica, non si preoccupano di sostenerli. Vedo una conferma di questo atteggiamento nella scarsa partecipazione dei giovani al voto e alla vita dei sindacati e dei partiti. In sostanza, penso che i giovani oggi siano consapevoli di quello che succede intorno a loro: ne sono preoccupati, ma cercano una risposta a livello individuale, anche perché vedono la difficoltà di una risposta collettiva. Un altro segnale di questo stato delle cose è la forte crescita dell’emigrazione dei laureati e dottori di ricerca. I giovani che hanno la capacità di presentarsi su un mercato del lavoro più ampio e competitivo escono dall’Italia, che offre poche prospettive. E siamo un paese in cui la percentuale dei laureati tra i 25-35enni è attorno al 25%, mentre in Europa siamo al 42-43%. Malgrado ciò, abbiamo una struttura produttiva che non riesce ad attrarre i giovani con formazione medio-alta – per condizioni di lavoro non attraenti, per salari non adeguati. Qualcuno parla di overeducation; io non sono di quest’avviso. Ritengo piuttosto che il sistema produttivo sia rimasto arretrato. Le imprese che “tengono” sono quelle di medie dimensioni, ma sono poche; il nostro sistema produttivo consta in gran parte di imprese piccolissime, familiari, che da tempo riescono, a fatica, a reggere contando su salari bassi. Il problema è nelle caratteristiche dello sviluppo italiano.
Provo a mettere insieme le evidenze del suo studio, con una qualità del lavoro che peggiora e insieme il numero basso dei laureati – peggio di noi fa solo la Romania – e i due milioni di NEET che non studiano e non lavorano. Da cosa si inizia per affrontare questi problemi?
E’ una sfida grande e difficile, anche perché la prospettiva di cercare di reggere in chiave di competizione verso il basso ci è preclusa. Ci sono paesi che stanno crescendo a tassi decisamente elevati, ad esempio India e Cina, i quali riescono a produrre a costi molto più bassi di noi. Allo stesso tempo, abbiamo un tasso di occupazione grosso modo più basso del 10% rispetto alla media europea, soprattutto per la bassa partecipazione al lavoro delle donne. Dovremmo, dunque, far crescere insieme il lavoro e la qualità del lavoro. Sarebbe già un passo avanti essere consapevoli che c’è questa sfida. Il dibattito corrente é incentrato sul brevissimo periodo. Penso, ad esempio, all’attenzione a misure quali i sussidi temporanei alle imprese per assunzioni; che funzionano – quando funzionano – per il periodo in cui sono in vigore. Bisognerebbe avere il coraggio di misurarsi con i problemi strutturali e darsi degli obiettivi ambiziosi, realisticamente ambiziosi, in una prospettiva di medio-lungo periodo.
Gli ultimi dati della Caritas Italiana ci dicono che ci sono oltre 5 milioni di persone in Italia in povertà assoluta. Il REI, il reddito di inclusione, era stato pensato proprio per gli ultimi, ma adesso si parla prevalentemente di Reddito di cittadinanza. Cosa pensa di queste misure? Quali potrebbero essere le possibili ricette per rilanciare il lavoro e ridurre la povertà?
Ho seguito molto da vicino la vicenda del REI: ero nel gruppo tecnico che ha elaborato il progetto del “Reddito di inclusione sociale”, proposto dall’Alleanza contro la povertà, che del REI è la madre. Penso che per il contrasto alla povertà la strada imboccata dal REI sia giusta, per due ragioni: la prima, il criterio guida è quello dell’“universalismo selettivo”, cioè di combattere la povertà di tutti, non soltanto di coloro che potrebbero lavorare e non trovano lavoro; la seconda, perché si propone di dare un sostegno economico e, insieme, di promuovere l’“inclusione sociale”. Perché si dovrebbe sostenere economicamente un cinquantenne disoccupato e non un bambino di dieci anni? E perché ci si dovrebbe preoccupare del fatto che una persona in età di lavoro – e abile al lavoro – sia disoccupata, e non invece del fatto che ci sia un cinquantenne non abile al lavoro o un bambino di dieci anni che non va a scuola? Incidentalmente (ma non troppo), i minori sono i soggetti più deboli, e quelli per i quali il rischio di povertà assoluta è cresciuto di più e in misura preoccupante: in dieci anni siamo passati da meno del 4% a più del 12% dei minori in condizione di povertà assoluta. Occorre inoltre rendersi conto che la dimensione economica dell’intervento deve essere non solo sostenibile (e su questo aspetto tornerò tra poco), ma anche coerente con il contesto sociale in cui si interviene. Facciamo un esempio. Nei piccoli paesi del Mezzogiorno la soglia di povertà assoluta per una persona adulta è pari a 561 € (la fonte è l’Istat, l’anno il 2017). Ebbene, se con il trasferimento ipotizzato – pare – dal cosiddetto “Reddito di cittadinanza” si porta il reddito di questa persona a 780 €, come non interrogarsi sul fatto che in tal modo, volenti o nolenti, si finisce per incentivare la ricerca di lavoro nero, che non è una superficiale sbucciatura ma una delle piaghe del nostro mercato del lavoro?
Per potenziale in maniera efficace il REI è indispensabile, poi, rafforzare la struttura che deve gestirlo: i comuni, che ne sono i terminali operativi, coordinati a livelli degli “ambiti territoriali”; più precisamente, i loro servizi sociali, che operano col concorso dei servizi sanitari, scolastici, dell’impiego e con le associazioni di volontariato. Soltanto operando in maniera coordinata, come “rete di servizi”, si può perseguire credibilmente l’obiettivo dell’inclusione sociale, intaccando le molteplici dimensioni dell’esclusione. Certo, il lavoro. Ma anche le perdurati sacche di evasione dall’obbligo scolastico, l’analfabetismo funzionale, l’inserimento di persone e famiglie in vario modo marginalizzate. A fronte di queste sfide, è paradossale – e grave – che si arrivi a ipotizzare di fare affidamento, per la gestione di un ancora indistinto “Reddito di cittadinanza”, sulla sola rete dei Centri per l’impiego. Lo dico con una battuta, ma non credo di essere lontano dal vero: i Centri per l’impiego sono forse gli enti pubblici territoriali con la più alta percentuale di precari.
Oggi lo stanziamento del REI sfiora i 2 miliardi, con trasferimenti monetari ancora bassi, e però con un unico criterio di ammissibilità: la soglia di reddito. E questo è un grande pregio, perché porta, finalmente, il REI fuori dalla logica categoriale, male vicino alla cronicità del nostro welfare. Con un realistico e impegnativo piano triennale – o di legislatura – si potrebbe alzare progressivamente l’ammontare del trasferimento, e conseguentemente anche estendere la platea degli ammissibili. Si potrebbe così raggiungere l’intera di cinque milioni di persone in povertà assoluta con un trasferimento adeguato e, insieme, sostenere l’azione degli enti locali in tema di inclusione sociale. Si offrirebbe un sensato banco di prova alla “rete dei servizi di ambito”, dopo che gli enti locali, in particolare i Comuni, negli ultimi anni (o decenni?) sono stati massacrati dalla compressione dell’autonomia tributaria e dai tagli dei trasferimenti statali. Prendere scorciatoie sarebbe improvvido, o meglio, decisamente pericoloso. Ad esempio, dare corpo a quelle che ancora oggi sono vaghe etichette, “Reddito di cittadinanza” e “Pensione di cittadinanza”, tramite provvedimenti solo per i “disoccupati” e per gli “anziani con pensioni basse”, per di più dando rilievo alla condizione della persona e non della famiglia, significherebbe tornare alla logica categoriale, disastrosa nei suoi perversi effetti distributivi (e, per chi ritiene che le parole siano ancora pietre, clamorosamente contraddittoria con l’invocazione di diritti sociali “di cittadinanza”).