A pochi giorni dal voto nelle analisi di molti opinionisti e politici è prevalsa la convinzione che una delle principali motivazioni della vittoria dei 5 stelle al Sud sia stata “l’incontrollabile pulsione all’assistenzialismo” di un Mezzogiorno ancora una volta dipinto come straccione, abitato da scansafatiche che, orfani delle collusioni clientelari, più o meno istituzionalizzate, avrebbero intravisto nel Reddito di cittadinanza un modo facile per sbarcare il lunario. Il sarcasmo che ha condito commenti anche autorevoli sulle file di meridionali agli sportelli dei Caf, quale che fosse l’effettiva veridicità della notizia, ha fatto il resto, descrivendo un popolo di analfabeti funzionali, incapaci di comprendere le difficoltà degli iter parlamentari dei provvedimenti. Insomma, ancora una volta, emerge l’antimeridionalismo e la distanza della classe dirigente italiana, spesso anche quella di sinistra, dalla realtà quotidiana delle persone. Guardare i fatti e non la loro rappresentazione è certamente un’operazione più complicata, soprattutto se l’argomento in questione è il “lavoro al Sud”, ma forse vale la pena provarci. Un lavoro che non solo manca ma che quando c’è troppe volte è caratterizzato da sfruttamento e assenza di diritti.
La ripresa dell’occupazione dell’ultimo anno non ha inciso su quella che la Svimez ha definito la “profonda ristrutturazione al ribasso” del mercato del lavoro italiano avvenuta durante la crisi e soprattutto non ha interessato le fasce di popolazione più esposte al rischio di marginalizzazione sociale come i lavoratori a basso livello di qualificazione, i giovani e gli immigrati, e in generale coloro che risiedono nel Mezzogiorno di Italia. In quest’area del paese, dove una famiglia su due è monoreddito e dove il tasso di occupazione è ancora al di sotto dei livelli già di per sé bassi del 2008, il lavoro per molti diventa una sorta di “dono” e per questo da accettare senza porre condizioni, in relazione a salario, regolarità della posizione, orario e sicurezza sul lavoro, assenza di ogni possibilità vertenziale. Per non parlare delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro in situazioni di forte asimmetria di potere.
Inoltre, se da un lato aumenta il numero dei working poor – vuoi perché non guadagnano abbastanza vuoi perché quel reddito deve bastare all’intera famiglia – dall’altro lato per altri, come per molti giovani in generale e per le donne, esso diventa una sorta di traguardo irraggiungibile su cui non vale più la pena neanche di investire tempo, risorse, formazione. O ancora, si pensi ai lavoratori adulti, a bassa scolarità, espulsi da un mercato del lavoro spesso privo di ammortizzatori sociali che per tirare avanti lavorano quasi sempre al nero, con paghe irrisorie, a giornata e senza alcuna tutela.
Di fronte a tale situazione, benchè resti assolutamento centrale l’obiettivo di incrementare l’occupazione, il tema di attivare forme di sostegno al reddito è importante ed è urgente. Con il Rei si è fatto un passo avanti, sia uscendo dalla logica delle sperimentazioni e degli interventi territorialmente delimitati, sia impegnando una quantità di risorse economiche di tutto rispetto, anche se ancora insufficienti. Ma se la proposta del Reddito di cittadinanza del M5S ha avuto una così ampia eco evidentemente resta forte l’esigenza delle famiglie di avere un poco di respiro. E, in queste famiglie, giova ricordarlo, vivono oltre un milione di bambini. Trattare quest’ultimi da parassiti è se non altro crudele. E’ indubbio che qualsiasi sostegno economico debba essere legato a un intervento di supporto sul singolo e sul nucleo familiare che aiuti a superare le difficoltà e ad attivare le risorse, chiedendo a quest’ultimo di attivarsi in questo percorso, ma al tempo stesso va ribadito che nessun impegno di autonomia ed emancipazione può essere assunto sotto ricatto o in modo passivo.
Occorre, in altre parole, provare a rimettere in pari tutte quelle persone che oggi sono in condizione di troppa disparità non solo per avere qualche possibilità di reinserirsi nel mercato del lavoro ma anche per ritrovare tempo e spazio per rinvestire su di se e sulle proprie competenze. Non si può accettare che ci siano migliaia di persone che ogni giorno sono schiacciate dall’ansia della sopravvivenza e contemporaneamente parlare, con convinzione e serietà, di sviluppo e legalità del territorio.
C’è la questione del dove trovare i soldi. Certo è un tema che va tenuto in considerazione, ma che non può essere affrontato con la sola convinzione che investire sul contrasto alla povertà o sulla coesione sia una sorta di spesa a perdere. Occorre ragionare in modo più complessivo, ad esempio interrogandosi e analizzando anche quanto, a lungo termine, si risparmia nell’evitare che chi è povero oggi, ma ha ancora le risorse per uscire dalla sua condizione, possa domani intraprendere percorsi di esclusione senza ritorno, passando sotto la competenza di altri tipi d’istituzioni (dal carcere all’ospedale, dalle case famiglia ai dormitori pubblici) il cui mantenimento non è meno costoso.
Dunque non bisognerebbe sorprendersi o indignarsi per le file di persone che chiedono informazioni, ma provare a capire come si risponde in modo serio ad un sempre più diffuso bisogno di poter immaginare e vivere condizioni minime di esistenza anche quando non si riesce ad accedere in modo regolare al lavoro.