I contributi
L’opinione del Forum
La globalizzazione del ‘900 ha indotto battaglie per l’avanzamento sociale che a loro volta hanno indotto scelte politiche, culturali ed economiche volte a ridurre le disuguaglianze, come in effetti è avvenuto fino a tutti gli anni ’70. Queste scelte si sono tradotte in politiche pubbliche, in un elevato potere negoziale del lavoro e in un senso comune favorevole a ridurre le disuguaglianze. Si tratta di scelte fra loro collegate e sinergiche. Che sono state progressivamente rovesciate a partire dagli anni ’80. Per quanto riguarda le politiche pubbliche, l’inversione a U riguarda sia le politiche macroeconomiche e di regolamentazione, nazionali e internazionali, sia la politica del welfare, sia le politiche di sviluppo.
Per quanto riguarda le politiche macroeconomiche e di regolamentazione, i cambiamenti hanno riguardato:
- La rottura, con il WTO, del compromesso keynesiano post-bellico, che prevedeva movimenti di capitale limitati e una liberalizzazione del commercio non lesiva della tutela del proprio modello sociale (cfr. Dani Rodrik,The Globalization Paradox. Why Global Markets, States and Democracy can’t coexist, Oxford University Press, 2012).
- Il forte rafforzamento, sempre con il WTO, del controllo (via brevetti) sul capitale immateriale: un passo che inizialmente favorisce innovazioni e investimenti da parte delle grandicorporations, ma poi limita i processi imitativo/adattivi delle innovazioni (Cfr. Ugo Pagano, Maria Alessandra Rossi, The Crash of the Knowledge Economy, Cambridge Journal of Economics, Vol. 33, Issue 4, pp. 665-683, 2009).
- L’abbandono dell’obiettivo di contrastare il ciclo economico;
- L’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione e il disconoscimento dei sindacati come organizzazione che riequilibra il rapporto ineguale tra capitale e lavoro.
- L’indebolimento di tutti gli strumenti di tutela e regolamentazione della concorrenza nei mercati del prodotto e dei capitali e l’indebolimento della tutela del risparmio diffuso attraverso gli strumenti del governo societario.
Con riguardo alle politiche del welfare, l’inversione è nata sia dall’osservazione di effetti di scoraggiamento dell’impegno nel lavoro mostrati dalle misure introdotte nel periodo precedente, sia da un cambio di senso comune, che ha visto la tendenza crescente ad attribuire le disuguaglianze all’impegno diverso delle persone anziché alle circostanze, sia infine perdita di potere negoziale del lavoro. Da questi e da altri fattori, sono discese misure volte a ridurre la progressività delle imposte e l’universalità e gratuità piena di alcuni servizi essenziali, la scelta di concentrare su questi servizi e sui pubblici investimenti i tagli di bilancio, la riduzione dei trasferimenti alle persone. Ed è disceso un cambiamento della stessa idea di welfare nel senso comune: un welfare percepito come un insieme di “politiche deboli perché rivolte e utili ai soli deboli”: un welfare che viene “a seguito” e non invece “come presupposto” dello sviluppo, ed è quindi sacrificabile in tempi di crisi perché non investe l’interesse collettivo.
Un terzo gruppo di politiche ha fortemente accresciuto le disuguaglianze, soprattutto quelle territoriali: si tratta delle politiche di sviluppo adottate in questo periodo. In dettaglio:
- Riforme strutturali cieche ai luoghi.Riforme strutturali delle istituzioni, uguali per tutti – best practices – dovrebbero garantire a ogni paese di reggere alla nuova concorrenza derivante dalla piena liberalizzazione dei mercati. Si assume che le classi dirigenti locali siano “benevole” e operino nell’interesse pubblico, eseguendo le istruzioni del Centro. Non ci si avvede del fatto che le conoscenze necessarie per ottenere risultati sono in larga misure disponibili nei singoli territori e contesti. Né si ha cura per le differenze fra le preferenze dei cittadini di quei luoghi. I cittadini, in questo approccio, votano nell’urna e “con i piedi” – lasciando le scuole, gli ospedali, i territori non di loro gradimento. Queste politiche sono inefficaci e penalizzano chi non ha la possibilità di votare con i piedi.
- Investimenti pubblici che assecondano le agglomerazioni.Qui allo Stato si chiede di affidare alle grandi imprese la scelta dei luoghi e dei modi con cui accelerare il processo di concentrazione nelle città, per poi assecondare tali scelte con vasti programmi di investimento pubblico. Anziché ricercare i modi per dialogare con le grandi imprese, mettendo in partita le loro conoscenze, si assume che esse, pressate da consumatori/ambientalisti/azionisti etc. etc., facciano le proprie scelte nell’interesse collettivo. Si pone scarsa attenzione alle esternalità negative delle agglomerazioni e si assume che col tempo i benefici percoleranno anche ai perdenti, ipotesi empiricamente infondata. L’esito finale è un forte aumento dell’esclusione sociale, sia nelle aree urbane, sia nelle aree rurali abbandonate dai loro abitanti.
- Compensazioni compassionevoli.Queste politiche nascono proprio dai guasti prodotti dalle prime due. Per evitare le tensioni sociali che quelle provocano, la scelta è di trasferire fondi alle aree dove si concentrano i “perdenti”, fondi per infrastrutture, incentivi, formazione, non rileva. Fondi affidati alla gestione delle classi dirigenti locali. L’effetto è perverso. Quei trasferimenti, infatti, concorrono a trasformare la tendenziale ritrosia di molte classi dirigenti locali nei confronti dell’innovazione (legata alla preoccupazione di essere spiazzati: cfr. Daron Acemoglu, James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, 2013) in caparbia opposizione al cambiamento. Diventa loro interesse che quei fondi non avviino un processo di sviluppo, che potrebbe tagliarle fuori, e che le priverebbe del ruolo di intermediari dei trasferimenti. Le disuguaglianze devono essere cristallizzate, subito al di sotto della soglia della rivolta. I cittadini vengono “comprati” concedendo loro un accesso ai trasferimenti. È la storia di tante aree del Mezzogiorno, di Roma, di un numero crescente di aree del Centro e Nord del paese.