Occorre operare un cambiamento in primo luogo culturale, altrimenti il rischio è che mutamenti politici non modifichino l’orientamento generale di politica economica: un obiettivo che si raggiunge con il contributo degli studiosi, e di chi lavora nel mondo della divulgazione scientifica e dell’informazione.
Intervista a Massimo D’Antoni *
Nella nostra visione l’inversione a U delle politiche pubbliche è uno dei tre fattori, con il cambiamento del senso comune e dei rapporti di forza lavoro-capitale, che hanno prodotto l’aumento delle disuguaglianze di cui come Forum ci occupiamo. È d’accordo con questa lettura? Ci spiega il suo punto di vista? E in quale ordine dei tre fattori tornare indietro?
Si tratta certamente di tre aspetti collegati, che si influenzano e si determinano reciprocamente. Non so se parlerei di inversione a U, immagine che fa pensare a un cambiamento improvviso; anche se nei paesi anglosassoni possiamo indicare dei passaggi politici precisi (l’avvento dei governi Thatcher e Reagan), per quanto riguarda il resto dei paesi avanzati tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha avuto luogo un mutamento più graduale, e forse per questo più insidioso, perché alla fine esso non ha visto come protagoniste solo le forze conservatrici o tradizionalmente vicine alla destra liberale, ma anche i partiti di sinistra o centrosinistra. Vorrei sottolineare che quando parliamo di politiche pubbliche e di diseguaglianze, ad essere rilevanti non sono solo le politiche direttamente miranti alla redistribuzione, come l’arretramento nei programmi universalistici di welfare o la riduzione della progressività delle imposte. Il cambiamento di rapporti di forza tra capitale e lavoro è stato esso stesso l’esito di scelte politiche precise. Mi riferisco agli interventi sul mercato del lavoro, le varie riforme “strutturali”, che rendendo flessibile e precario il lavoro ne hanno certamente indebolito la forza. Ma prima ancora di queste, la liberalizzazione dei movimenti di capitale non è stato un evento naturale ma una precisa scelta politica; è bene ricordare che la mobilità di un fattore produttivo gli conferisce forza, in quanto consente di rispondere a politiche che potrebbero penalizzarlo spostandosi altrove o minacciando di farlo. Con riguardo a come “tornare indietro”, direi che è molto importante operare per un cambiamento in primo luogo culturale, altrimenti il rischio è che mutamenti politici non modifichino l’orientamento generale di politica economica.
Tra i suoi interessi di ricerca figura il tema dell’equità ed efficienza nell’intervento pubblico. Ora, dopo anni di privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica, si ricomincia a parlare di nazionalizzazioni o di ampliare le partecipazioni pubbliche. Quando e come si tratta di una buona idea? E come assicurare, nel caso, che non si ripetano le degenerazioni del passato?
Veniamo da anni nei quali l’assunto di fondo era che la fornitura privata di beni e servizi fosse una soluzione indiscutibilmente superiore a quella pubblica. Si avvertono ora dei segnali di ripensamento, di fronte all’evidenza che in molti casi le privatizzazioni non solo hanno ridotto l’equità di accesso a certi beni e servizi, ma hanno anche tradito la promesse di maggiore efficienza e di riduzione delle rendite ai gruppi di pressione; penso soprattutto all’efficienza di lungo periodo data da un adeguato flusso di investimenti, e al fatto che spesso le privatizzazioni si siano risolte in un ottimo affare per gli azionisti privati ma non per i consumatori e i lavoratori.
Un primo criterio da seguire, a mio avviso, dovrebbe essere quello di ridiscutere i vantaggi della gestione privata nelle situazioni di monopolio naturale, quando cioè non può operare il meccanismo disciplinante della concorrenza, e quando sono coinvolte infrastrutture che richiedono investimenti di lungo periodo, che il privato, orientato al rendimento a breve termine, potrebbe non avere sufficiente incentivo a realizzare. Penso a casi come quelli delle infrastrutture di trasporto (strade e ferrovie) o alle infrastrutture idriche. Non si tratta di fare l’errore opposto, ritenendo che il pubblico sia sempre meglio del privato, ma di riconoscere che nel confronto tra due soluzioni imperfette ci sono casi nei quali i difetti di una gestione pubblica hanno, per così dire, conseguenze meno gravi di quelli di una gestione privata.
Vi sono poi casi nei quali la fornitura pubblica è una soluzione superiore sia dal punto di vista dell’equità di accesso che dell’efficienza, intesa come capacità di fornire prestazioni di qualità a costo più basso. Mi riferisco ad esempio alla sanità: vista l’esperienza di paesi a sanità privata come gli Stati Uniti, dove in presenza di livelli elevatissimi di spesa complessiva ampie fasce della popolazione non hanno accesso a cure adeguate, è veramente incomprensibile che qualcuno possa ritenere percorribile la strada di una riduzione del ruolo del pubblico a favore di soluzioni privatistiche.
Gravi responsabilità ha il progressivo abbandono dell’obiettivo della piena occupazione e l’indebolimento dei sindacati. Dedichiamo al tema una delle tre proposte del Programma Atkinson per l’Italia. È possibile secondo lei che lo Stato si impegni a garantire lavoro dignitoso e adeguatamente pagato per tutti o si tratta di un obiettivo irrealizzabile in un’economia globalizzata?
Il riferimento finale al fatto che l’economia sia globalizzata è molto importante. L’economista Dani Rodrik considera che la globalizzazione sia stata portata troppo avanti, al punto da condizionare le politiche che un governo è in grado di realizzare. Penso in particolare alla mobilità dei capitali, un aspetto che ho già menzionato. Se accettiamo questa premessa, e abbandoniamo sia un eccesso di ottimismo sui benefici della globalizzazione sia l’idea che questa sia un processo naturale e ineluttabile, dovremmo considerare la possibilità di un parziale ritorno a forme di integrazione meno estrema dei mercati, ad esempio valutando la possibilità di non approvare accordi di scambio che possano ridurre le capacità regolatorie degli Stati.
Nello specifico del mercato del lavoro, credo che mettere al centro l’obiettivo di piena occupazione sia cruciale. A questo riguardo, occorre rimarcare quale errore sia stato, e quale problema sia tuttora, aver costruito in Europa un’Unione monetaria attorno a una banca centrale (la Bce) che ha come missione esclusiva la stabilità dei prezzi. Se si vuole evitare che il progetto di integrazione europea crolli sotto la spinta di una rivolta sociale al momento guidata dalle forze cosiddette populiste, l’assetto del mercato unico dovrebbe essere modificato ponendo al centro l’obiettivo della piena occupazione. Così com’è, la moneta unica funziona invece come strumento efficace di disciplina per i sindacati, la cui forza contrattuale è frustrata dal rischio che aumenti salariali compromettano la competitività del Paese. Purtroppo sono molto pessimista sul fatto che tali modifiche siano attuate.
In un articolo pubblicato in italiano nel n. 1272 di Internazionale, John Lanchester ripercorre le decisioni degli ultimi dieci anni a partire dallo scoppio della crisi: il salvataggio delle banche, le misure di austerità, le mancate strette alla finanza. La politica ha imparato la lezione?
Rispondo molto sinteticamente: mi pare che dopo anni di ottusa applicazione dell’austerità, ci sia qualche dubbio in più sulla loro efficacia, ma leggendo i documenti della Commissione europea o le prese di posizione della Bce, non ho la sensazione che la lezione sia stata appresa fino in fondo. Temo che continuare su questa strada sia funzionale al mantenimento di un certo assetto di rapporto di forza, tra Paesi e tra le diverse forze sociali all’interno di essi.
Un’ultima domanda, che prende spunto dal riferimento esplicito nella sua prima risposta alla necessità di un cambiamento culturale che inneschi a cascata uno spostamento anche nell’azione pubblica. Crede che in questo momento gli intellettuali, in senso ampio, possano ricoprire nuovamente un ruolo centrale? Se sì come?
Quando parlo di cambiamento culturale mi riferisco ovviamente alla necessità di evidenziare i punti deboli della visione neoliberista e che afferma la superiorità, sempre e comunque, dei meccanismi decentrati di mercato rispetto ad altre modalità di organizzazione dell’attività economica, quale ad esempio la fornitura pubblica di beni e servizi. Si è affermata nei decenni scorsi l’idea che non ci fosse necessità di una politica economica per stabilizzare le economie capitaliste e che invece il mercato lasciato a se stesso avrebbe garantito il massimo di benessere. La crisi ci ha fatto vedere che le economie soffrono ancora di grossi problemi di instabilità e l’evoluzione della distribuzione del reddito e della ricchezza ha reso evidente che il capitalismo senza correttivi aumenta le disuguaglianze e alla lunga può compromettere il funzionamento della democrazia. È quindi necessario ricostruire una visione più equilibrata del rapporto tra ruolo del mercato e ruolo delle politiche economiche. Direi che questo è l’obiettivo. Nel modificare quella che è la percezione, premessa al cambiamento delle politiche, possono senz’altro avere un ruolo gli studiosi, chi lavora nelle istituzioni preposte alla trasmissione della cultura, ma anche chi lavora nel mondo della divulgazione scientifica e dell’informazione, perché non sempre il dibattito pubblico tiene conto di quanto viene elaborato a livello accademico. C’è dunque una responsabilità di chi elabora i concetti e c’è anche una responsabilità di far sì che di ciò che viene elaborato dagli economisti al grande non arrivino solo alcuni punti di vista, alcune visioni o teorie. Ho parlato degli economisti, ma ovviamente il discorso può essere esteso anche al contributo delle altre scienze sociali e dei filosofi, anche per evitare prospettive troppo settoriali che possono perdere di vista la complessità e multiformità dei fenomeni.