Immobilità e irrilevanza: a questo è condannata la sinistra se la lotta alla disuguaglianza non si trasforma da esercizio retorico a proposta di politica pubblica che abbia al centro i valori e i bisogni delle persone, il lavoro come elemento strutturale e l’orientamento dello sviluppo tecnologico.
Intervista a Laura Pennacchi*
“Le disuguaglianze non sono l’effetto di cambiamenti fuori dal nostro controllo” è il titolo di questa #parolaperpensare. E’ d’accordo con questa lettura che nega l’inevitabilità delle disuguaglianze?
Sono d’accordo e sono profondamente convinta che qui ci sia uno snodo cruciale per evitare che il discorso sulle disuguaglianze, che per fortuna sta riprendendo piede, diventi una nuova retorica abbastanza inconcludente, ovvero quello di prendere atto che non sono fenomeni inevitabili, che non cadono dal cielo, ma sono frutto di scelte politiche, di azioni, reazioni e contro-movimenti come diceva Karl Polany. Con Massimo Paci siamo stati i primi a riproporre il tema delle disuguaglianze all’attenzione del mondo accademico italiano alla fine degli anni ’80, con la convinzione profondissima che fosse un fenomeno legato alle dinamiche politiche, e negli anni questa idea si è sempre più consolidata anche grazie ai rapporti intensi e profondi che ho avuto con Tony Atkinson. Nel 2005 ho passato due mesi ad Oxford a lavorare con lui e la connessione del fenomeno delle disuguaglianze con le politiche pubbliche era un argomento costante della nostra discussione, nonché un punto di differenza molto profondo tra lui e Piketty.
Noi enucleiamo tre macro-cause ovvero l’inversione a U delle politiche pubbliche, la perdita di potere negoziale del lavoro e il cambiamento nel senso comune. Le chiedo, c’è un fattore che ha trainato gli altri e che tipo di gerarchia e delle correlazioni ci sono tra le tre cause?
Ci sono sicuramente delle correlazioni tra le tre macro-cause, e penso che il motore sia proprio l’inversione a U delle politiche pubbliche che ha rovesciato i trent’anni gloriosi di Keynes e del compromesso socialdemocratico, durante i quali c’era stata una riduzione drastica delle disuguaglianze. Ricordo un saggio di Paul Krugman del 2002, in cui faceva l’esempio del rapporto tra la retribuzione mediana di un lavoratore e quella di un top manager. Nel 1979 era di 29 volte, nel 2002, quando il saggio uscì, era già arrivato a 200 volte, oggi ha superato in alcuni casi le 400 volte. Quel rapporto di 29 volte era stato il frutto delle straordinarie politiche egualitarie che complessivamente avevano cambiato il modello di sviluppo precedente e che avevano corrisposto a impulsi che venivano dal New Deal di Roosevelt e in Europa delle politiche laburistiche e socialdemocratiche, contrastando la naturale tensione all’aumento delle disuguaglianze connaturata al capitalismo, come aveva giù intuito Keynes. A partire dalla fine degli anni ’70 e dall’inizio degli anni ’80 il grande rovesciamento che avviene è l’avvento del neoliberismo. C’è un libro molto bello di un’ecologista marxista, David Harvey, uscito nel 2005 e poi pubblicato in italiano nel 2008. Lui ha ricostruito la storia di come si era arrivati al neoliberismo e ricordo che nella copertina dell’edizione inglese c’erano le fotografie della Thatcher, di Reagan, di Deng Xiaoping e di Pinochet, e già quest’ultimo dimostrava la singolare stranissima ma evidente coincidenza tra neoliberismo e autoritarismo. David Harvey fa una ricostruzione molto accurata di come avviene il rovesciamento delle politiche, che parte dal livello culturale, dalla creazione di think tank che estromettono il pensiero keynesiano, lo rendono minoritario e creano una situazione favorevole alla possibilità che vengano adottate le politiche neoliberiste di privatizzazione, di riduzione selvaggia delle tasse e di sottrazione del denaro all’operatore pubblico necessario a finanziare le politiche dei servizi e di redistribuzione, di liberalizzazione dei mercati, di competitività praticata che porta poi alla globalizzazione, agli accordi del WTO della fine degli anni ‘90, alla soppressione di tutti i controlli ai movimenti di capitale. Sono cose complesse ma che sono state pensate a un punto tale che possiamo ricostruire l’origine e far risalire questo pensiero alla Mont Pellerin Society, del 1947, animata da von Hayek e dagli ortoliberali austriaci che poi vengono tradotti in salsa neoliberista pura dai Chicago Boys, dal monetarismo di Milton Friedman, eccetera. David Harvey arriva addirittura a una ricostruzione che potremmo definire dietrologica, poiché afferma che si è trattato di un vero e proprio progetto di restaurazione capitalistica. Io non sono del tutto convinta ma è difficile non vedere un sommovimento organizzato e strutturato che ha investito tanti livelli. Rispetto a questo disegno la sinistra, sia liberal-democratica che socialdemocratica laburista si è dimostrata totalmente impreparata rimanendo fossilizzata su posizioni “vetero-fordiste” che non erano le più adatte ad affrontare il mondo nuovo che si stava profilando. La sinistra è stata sterile, inerte, e alla fine è stata presa da quel morbo praticando un neoliberismo temperato. Questo mi consente di rispondere alla seconda parte della domanda, se c’è una connessione tra i tre fenomeni. Sicuramente il turning point è connesso con la caduta del potere negoziale del sindacato. Pensiamo ai minatori inglesi, a quello che accadde nelle telecomunicazioni e nel trasporto aereo negli Stati Uniti e che da lì si espanse su tutti i settori sindacalizzati. Una delle condizioni fondamentali per operare il rovesciamento era distruggere le roccaforti sindacali, indebolire il sindacato, frantumare il lavoro. Non a caso Federico Butera scrisse un libro eccellente in quegli anni “Il lavoro in frantumi”. I sindacati all’epoca purtroppo non sono stati all’altezza. Si sono difesi fino allo stremo ma non bastava soltanto una lotta difensiva. Il terzo elemento l’ho già accennato. Questa svolta che avviene alla fine degli anni ’70, era già stata preparata molto tempo prima a partire dalle Università e dai centri culturali, permettendo una diffusa tolleranza verso le disuguaglianze mentre nei decenni precedenti c’era stata una più diffusa cultura egualitaria. Per fare un semplice esempio Krugman, nel saggio che citavo prima, ricorda che negli anni ’50 i manager andavano al lavoro con la propria automobile e prima di andare al lavoro accompagnavano i figli a scuola. Oggi abbiamo in apparenza una maggiore omogeneità di stili di vita, ma le discrepanze di redditi e di ricchezza sono salite alle stelle. Quindi il cambiamento nei costumi e l’accettazione morale delle disuguaglianze sono stati elementi fondamentali a cui non a caso Atkinson, nel libro prima di Inequality: what can be done, dedica interi capitoli. Io stessa sto preparando un libro, in uscita a settembre, dal titolo “De valoris disputandum est”, e già nel titolo c’è una critica al detto comune “de gustibus non dispuntandum est”, perché assimilando i valori a gusti e preferenze, cosa che fa soprattutto la scienza economica che nel suo statuto epistemologico scinde l’etica dall’economia, si pretende che dei valori si possa discutere soltanto nella sfera privata, intima, interiore ma non in quella pubblica dove viviamo quello che Max Weber chiamava il politeismo dei valori. Questo però ci rende disarmati e immobili mentre è evidente che c’è un fortissimo contenuto etico-politico nelle questioni che discutiamo nel dibattito pubblico e che la sinistra non sa più rintracciare facendo virare il populismo verso destra. E’ proprio il populismo che esprime una domanda di valori che rimane inevasa.
In un’intervista ad Avvenire di un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del suo libro “Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo”, lei ricordava come l’egemonia neo-liberista abbia condotto a una dissociazione tra etica ed economia. E’ possibile riumanizzare l’economia?
E’ possibile ed è doveroso. Dobbiamo farlo altrimenti rimarremo prigionieri di questo mutismo politico che ci rende irrilevanti. Dobbiamo farlo per poter tornare a dialogare con le persone, a intercettare le loro passioni e i loro sentimenti, per ritrovare questa dimensione dell’economia che era molto presente agli economisti classici, anche ad Adam Smith che non a caso Amartya Sen non considera un utilitarista. Negli anni invece una delle fissazioni dell’economia è stata quella di considerare la gente non come un soggetto ma come un automa auto-interessato che massimizza soltanto il proprio interesse. Se si considerano le persone come macchine calcolatrici, al quel punto non c’è nessuno spazio per un discorso sui fini e sui valori, come ambito razionalmente indagabile. C’è dunque un lavoro grande da fare per recuperare nell’economia un discorso legato ai valori. Importanti sono i contributi dei filosofi morali, penso a Martha Nussbaum, o a Elena Pulcini e Alessandro Ferrara che hanno scritto libri che segnalano cosa succede se questo terreno, quello dei valori, viene consegnato totalmente all’irrazionale. Succede che si perdono i criteri per discernere cosa è vero o non vero, tra giusto o ingiusto, uguale o disuguale. Abbiamo bisogno di una sorta di alfabetizzazione morale e di riabilitazione del contenuto morale ed etico della politica.
Tutti i partiti, a ogni latitudine, dichiarano di voler mettere al centro le persone e i loro bisogni. Ma se il fine a cui tutti tendono è lo stesso, diversi sembrano i mezzi per raggiungerlo. Quali politiche pubbliche potrebbero realmente ridurre le disuguaglianze?
Io penso proprio che la persona e i bisogni debbano tornare al centro del discorso politico. Senza nessuna retorica, ma sentendone l’urgenza, credo sia importante proporre un nuovo umanesimo. Altrimenti l’unica passione che rimane in campo, su cui fanno leva i populisti di destra, è la paura, dell’immigrato, del diverso, del portatore di handicap, del povero. Non si può vivere così. Credo dunque che l’uguaglianza, per non essere solo una declamazione retorica, deve essere collegata a una visione neoumanista, e al centro di questa visione deve esserci la riscoperta del lavoro, facendolo uscire dall’invisibilità politica in cui è caduto. Occorre ricostruire arene collettive e spazi pubblici, ma non possiamo pensare che siano spazi riservati a un’élite. Devono essere spazi aperti a tutti, e per fare questo occorre mettere al centro il lavoro come elemento antropologicamente strutturante. Bisognerebbe procedere con un mix di politiche, anche fatte di trasferimenti monetari ai più poveri, ma sono assolutamente contraria al reddito di base e favorevole invece a un discorso di lavoro di cittadinanza che deve diventare il frame, la cornice, come i job corps o l’esercito industriale del lavoro di cui parlava Ernesto Rossi nel 1946.
L’ultimo libro che ha curato con Riccardo Sanna si intitola “Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo”. L’attuale sistema economico è riformabile? E come?
Dopo il libro che lei cita ne abbiamo pubblicato di recente anche un altro, il terzo di una trilogia, dal titolo “Lavoro e innovazione. Per riformare il capitalismo”, perché crediamo sia un tema importante quello della riforma del capitalismo nonché un ambito in cui il dibattito è molto vasto. Le rispondo partendo da una domanda: se accettassimo l’idea che il capitalismo sia irriformabile quale sarebbe l’alternativa per noi? Verso dove andremmo? Verso il sovranismo? Io penso che sia molto più fruttuoso tenere in considerazione la cosiddetta variety of capitalism: ci sono più tipi di capitalismo e quello scandinavo continua ad essere il migliore con indicatori sulla qualità della vita delle persone che lo mostrano chiaramente. Prendiamone uno ad esempio: la mortalità infantile. Negli Stati Uniti è ancora del 7 per mille, mentre nei paesi scandinavi e per fortuna anche in Italia è del 2 per mille. Oppure la speranza di vita. Ad Harlem, al centro della più straordinaria metropoli mondiale, è inferiore a quella di alcuni paesi africani. Non possiamo dire che il capitalismo sia uguale dappertutto o che sia un sistema immutabile poiché è sempre cambiato nel tempo dimostrando la sua straordinaria capacità di metamorfosi. E questo l’aveva già capito molto bene Karl Marx, che invitava a discernere gli elementi di dinamismo che il capitalismo contiene. In questo momento storico, la sfida più grande è quella di orientare il cambiamento tecnologico affinchè non ci conduca verso una jobless society, o verso un’intelligenza artificiale che ci ordina di avere desideri che non sappiamo di avere. Tutto questo va contrastato anche sfruttando gli elementi cooperativi contenuti nelle nuove tecnologie. Se si seguisse la democrazia economica, si potrebbero cogliere quelle che si chiamano finestre di opportunità e intervenire spingendo in una direzione invece che in un’altra. Questo è un altro elemento centrale nel pensiero di Anthony Atkinson, quello di saper dirigere e direzionare l’innovazione chiedendole di soddisfare i grandi bisogni sociali ancora insoddisfatti.