«E’ necessario riparare la terra», spiega papa Francesco nel messaggio per la Giornata Mondiale per la cura del Creato. Parla a tutti, certo. Ma pare parlare soprattutto a noi, al nostro Paese, alla nostra terra. Flagellata anche nelle ultime settimane da una serie di nubifragi così rabbiosi da ricordare quello fiorentino del 1288 descritto da Dante nel Purgatorio: «Indi la valle, come ’l dì fu spento, / Da Pratomagno al gran giogo coperse / Di nebbia, e ’l ciel di sopra fece intento / Sì, che ’l pregno aere in acqua si converse: / La pioggia cadde, e ai fossati venne …»
Certo, la natura può essere violentissima. Se azzanna non si ferma davanti a due bambine abbracciate sotto una tenda da campeggio. L’unica differenza col passato, dicono, è che un tempo quelle che chiamiamo con pigra ripetitività «bombe d’acqua» sembravano meno frequenti e meno diffuse sul territorio. I cambiamenti epocali dovuti anche alle scelleratezze dell’uomo, però, sono sotto gli occhi di tutti. Meglio: gli occhi di chi vuol vedere. E resta comunque, pesante, la responsabilità di chi ha aggravato le condizioni di un territorio bellissimo ma fragile. Basti dire, a proposito di quei rovesci d’acqua, che l’ultimo report Ispra denuncia che nell’ultimo anno sono nati 420 mila bambini e il suolo coperto da cemento e asfalto è avanzato di altri 57 milioni di metri quadri: 135 per ogni neonato.
«I Comuni italiani con località a rischio frane e alluvioni sono 7.275, il 91,1% del totale», riassumono Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi, già responsabili della struttura di missione di Palazzo Chigi «italiasicura» (liquidata come «inutile») nel saggio in uscita Storia d’Italia e delle catastrofi. Numeri da brivido: 620.808 eventi più o meno disastrosi su 750.000 circa registrati in tutta Europa. Una superficie «in frana» pari a un quinto del Paese. Rischio-colata su 188.565 tesori culturali sparsi sul territorio. E 4,8 milioni di italiani che «vivono in aree allagabili con 1.351.578 edifici, 596.254 strutture industriali». Per non dire delle scuole («oltre 24 mila (37%) in aree a elevato rischio sismico, circa 6.250 (9,6%) a forte rischio idrogeologico», dati Ance) e degli ospedali: quelli in situazioni esposte ai disastri sono 2.369. Il 41%.
Scriveva nel 1908 il geologo Giuseppe Mercalli: «La sismologia non sa dire quando, ma sa dire dove avverranno terremoti rovinosi, e sa pure graduare la sismicità delle diverse province italiane. Quindi saprebbe indicare al governo dove sarebbero necessari regolamenti edilizi più e dove meno rigorosi, senza aspettare che prima il terremoto distrugga quei paesi». Tesi che ricalcava Guicciardini sulle città «corpo gagliardo o di grande resistenzia» capaci di reggere anche a una «violenzia estraordinaria ed impetuosissima» ma non agli «errori di chi governa, quasi sempre causa» delle loro «ruine». Dal 1315 al 2016, ha ricostruito la storica Emanuela Guidoboni, il solo Appennino è stato colpito da 148 terremoti (uno ogni 4 anni) superiori a 5,5 gradi della scala Richter. Che dal solo 2000 a oggi, accusa il dossier La prevenzione sismica in Italia: una sconfitta culturale, un impegno inderogabile, «hanno causato 650 vittime, 60 miliardi di danni, creando un enorme impatto sulla popolazione colpita, un lungo fremito di paura per l’intero Paese, un duro colpo per la sua economia». Eppure, ha scritto Mario Sensini, dal 2009 (L’Aquila) a oggi sono stati spesi per sanare i danni da catastrofi 250 volte di più rispetto agli interventi di prevenzione.
È questo il fronte su cui occorre investire gran parte di quel «diluvio» (auguri…) di soldi in arrivo dall’Unione Europea. O il Paese viene «riparato», per usare le parole del Papa, o rischia di buttare via un’occasione storica. Irripetibile. Che la stessa Europa, la quale ama l’Italia al di là di tanti sopracciò, dovrebbe appoggiare fino in fondo. Purché, come insiste Fabrizio Barca che da ministro per la coesione territoriale del governo Monti seguì la fase finale dei Fondi Europei 2007/2013 «non si spenda un solo euro se non cambia il modo in cui si programma e si spende. Servono scelte forti, un rapporto radicalmente diverso con le realtà locali, un profondo ricambio burocratico». E trasparenza. Guai, se finisse in una distribuzione a pioggia di denari Ue come nel settennato su citato: un solo grande investimento superiore al miliardo e oltre 750.000 mila «aiutini» seminati qua e là, dal Sud al Nord, dalla trattoria di Bagheria all’agenzia funebre di Baveno. Un errore pagato caro. Col Pil pro capite di tutto il Mezzogiorno sprofondato sempre più giù, giù, giù… E governatori che facevano campagna elettorale dicendo: «Torniamo dentro l’Obiettivo 1!». Spacciando un disastro per trionfo.
Cambierà tutto con i 209 miliardi in arrivo (salvo intoppi dovuti ai mal di pancia) col Recovery Fund? Mah… I segnali non sembrano incoraggianti. Prendete il «Sisma Bonus», introdotto per aiutare la ricostruzione nell’Italia centrale (14,6 milioni erogati su due miliardi autorizzati dall’Ue) ancora bloccata. Il vecchio «premio» (tuttora in vigore) scattava solo se i lavori rendevano più sicuri gli edifici di una o due «classi sismiche». Anzi, da ciò derivava pure la misura dell’aiuto. Che senso ha ora il nuovo bonus che fissa una detrazione del 110% per tutti anche senza il «miglioramento sismico»? Il commissario straordinario Giovanni Legnini vorrebbe, magari con incentivi più forti, il ripristino dell’obbligo. Passerà? Mah…
Per non dire delle scuole: magari riapriranno coi banchi nuovi a rotelle e nuovi computer per la docenza in remoto e aule ampliate dallo spostamento di pareti (tocchiamo ferro…), ma che fine hanno fatto le promesse di edifici «sicuri»? Mai come ora, nel contesto di un solo istituto ogni dieci con meno di trent’anni e uno ogni quattro con più di ottanta, lo Stato dovrebbe offrire certezze. Ma, spiega l’ultimo dossier Ecosistema Scuola di Legambiente, solo nel 20,7% dei casi sono state fatte indagini diagnostiche sui solai e solo nel 32,9% è stata verificata la vulnerabilità sismica. A dispetto dell’85,8% delle scuole edificate così, senza criteri antisismici.
Eppure investire il più possibile nel riparare la nostra terra, le nostre scuole, i nostri boschi feriti, i nostri borghi, le nostre coste devastate dal turismo selvaggio, le nostre città d’arte, le nostre periferie metropolitane, le aree industriali evacuate e lasciate nel degrado più abietto non è solo un dovere morale. E neppure solo un obbligo per limitare nuove devastazioni e nuovi lutti. Come spiega Renzo Piano, che batte e ribatte da anni sul rammendo, la ricucitura, la riparazione (cos’è il nuovo ponte di Genova se non un orgoglioso riscatto di tragici errori?), riparare l’Italia può essere anche, nel senso più nobile, un affare: «Immaginiamo migliaia e migliaia di persone, di imprese, di intelligenze, di energie vitali finalmente al lavoro su un progetto che tocca tutti. Immaginiamo l’ottimismo. La creatività. La felicità di esserci. Sarebbe ossigeno. Quello che ci serve».