“Niente sarà più come prima” è l’ambigua promessa che sentiamo risuonare da editoriali e proclami politici di ogni provenienza. Spunti di riflessione su cosa questo potrebbe significare per gli operatori dei servizi socio-assistenziali e sociosanitari, oggi in larga parte esternalizzati. Un contributo di Davide Caselli, Gianluca De Angelis, Barbara Giullari*
I tratti essenziali del “prima”
Il lavoro sociale in Italia ha preso forma attraverso una combinazione di più elementi. Da un lato la storica marginalità legata a stereotipi di genere e all’idea di improduttività economica attribuita alla riproduzione sociale a vantaggio della produzione; dall’altro, la riorganizzazione territoriale del welfare, di pari passo con il sottofinanziamento strutturale e la progressiva commercializzazione del settore dei servizi socio-assistenziali. Il risultato è stato il cosiddetto “decentramento della penuria”: la spesa sociale dei Comuni, su cui grava gran parte dei costi socioassistenziali, rimane ferma allo 0,4% del Pil e presenta enormi diseguaglianze territoriali: dai 22 euro pro-capite della Calabria ai 423 del Trentino Alto Adige. In questo quadro, il lavoro nei servizi socioassistenziali è organizzato su strutture di piccole dimensioni (il 40% degli addetti opera in unità locali fino a 50 addetti), impoverito dalla frammentazione oraria (27 ore settimanali in media del 2019) e contrattuale (il 19% lavora con contratti a tempo determinato, mentre lo stesso avviene per l’8% nella sanità (Istat, 2017; 2019), la sua qualità messa in discussione dai criteri di economicità dell’organizzazione e da una carenza di mezzi che costringe spesso i lavoratori in condizioni di costante emergenza (collettivo WhoCares). La combinazione dei fattori sopra richiamati ha messo a dura prova la tenuta dei servizi socioassistenziali e sociosanitari che oggi manifestano, in modi diversi ma interdipendenti, la difficoltà a combinare la responsabilità verso i destinatari della cura e i verso i lavoratori che producono cura.
Effetti della crisi da Covid-19
Su questo sfondo, ennesima emergenza nell’emergenza, la pandemia si è abbattuta in più modi sugli operatori sociali dei servizi esternalizzati:
1) innanzitutto come problema economico, di continuità del reddito per i lavoratori dei servizi sospesi o ridotti per limitare i contagi: educatori scolastici, domiciliari, dei centri diurni per ragazzi a rischio di dispersione scolastica o con disabilità, etc. Il decreto “Cura Italia” del 17 marzo (art. 48 comma 2), interrompendo gran parte di queste attività a tutela della salute dei lavoratori ha offerto a Comuni e Regioni diverse soluzioni per regolare i rapporti con gli enti gestori (cooperative, fondazioni, aziende speciali). Al momento, in continuità con la “normale” frammentazione del welfare locale ogni territorio sta decidendo in modo autonomo, con grandi conseguenze sulla quota del salario ordinario dei lavoratori: pagare l’intera quota già stanziata (pochi); pagare solo una parte (la maggioranza); sospendere totalmente il servizio senza corrispondere alcun pagamento (alcuni).
2) quale problema di tutela della salute per chi continua a lavorare nelle strutture di tipo residenziale (comunità per minori, disabili, tossicodipendenti, richiedenti asilo, etc.) o nell’assistenza domiciliare (in sostituzione dei servizi svolti presso le diverse sedi, come consentito dal medesimo decreto, art. 48 comma 1). Nel momento in cui scriviamo, nel quadro della più generale mancanza di sicurezza per gli operatori sociali e sanitari (di cui la vicenda delle RSA è il più grave e clamoroso caso), in queste strutture e contesti spesso non sono in dotazione i DPI di base.
Cosa dovrebbe dunque cambiare? Alcuni segnali.
Qualche settimana fa Andrea Morniroli ha richiamato l’attenzione sulle condizioni in cui, in piena pandemia, operano migliaia di lavoratori del sociale con l’appello a tenere in uguale conto i due elementi che ne formano l’identità: “lavoro” e “prendersi cura”. Le stesse tragiche vicende di queste settimane ci hanno del resto spinto ad abbracciare con un unico sguardo le persone che beneficiano della cura e coloro che la producono. Un ulteriore elemento, sebbene non nuovo, assume una rinnovata importanza. Enti gestori e lavoratori, in diverse forme, stanno oggi prendendo la parola: attraverso testimonianze “di servizio”, in forma individuale o collettiva, attraverso le centrali cooperative o gli enti di rappresentanza, ma anche con la voce di comitati locali auto-organizzati, insieme ai coordinamenti nazionali e all’azione delle organizzazioni sindacali, confederali e di base. Diventa allora fondamentale riconoscere e prendere sul serio queste voci, tenere a mente gli elementi di frizione (rilevanti ed in crescita quelli tra lavoratori e i datori di lavoro nel Terzo settore) così come quelli, altrettanto ampi, su cui vi è convergenza. Tra questi ultimi ne richiamiamo alcuni, condivisi da molti e autorevoli studiosi del welfare:
- La definizione di diritti sociali certi ed esigibili per i cittadini, mediante la definizione di standard vincolanti e uniformi a livello nazionale sull’offerta dei servizi, finanziamenti stabili ed adeguati alla loro implementazione, attraverso nuove alleanze tra Stato centrale, Regioni e Comuni.
- L’equiparazione delle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori della cura, nel settore pubblico e privato, valutando modalità di internalizzazione, ripensando criteri e pratiche di esternalizzazione e le clausole che regolano i rapporti tra ente committente, ente gestore e lavoratori.
- La rimessa al centro del discorso pubblico delle condizioni e della qualità del lavoro di cura, mettendole al riparo dalle forme di “razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica” che poi, come la fase attuale ci ricorda impietosamente, con la razionalità hanno davvero poco a che fare.
Se riusciremo così a promuovere una visione del lavoro di cura quale espressione della solidarietà istituzionalizzata, prendersi collettivamente cura del legame sociale e realizzare diritti, allora forse “niente sarà più come prima”.