Abbiamo incontrato Fabrizio Barca, statistico ed economista, coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità. Aldilà dei ruoli istituzionali da lui ricoperti – dalla Banca d’Italia all’OCSE, dal Ministero Economia e Finanze alla carica da Ministro per la coesione territoriale, Barca si presenta innanzitutto come portatore di una visione e di un’etica chiara e convinta, che fa della lotta alle diseguaglianze il punto di partenza per ogni discussione. In questo delicato momento di crisi e di cambiamento politico italiano, condivide un’analisi socio-politica del Bel Paese, indicando qual è, a suo avviso, la strada da seguire – sinceramente a sinistra. Intervista pubblicata su Il Grand Continent
Lei ha partecipato all’esperienza di un governo tecnico. Come giudica il governo Draghi appena insediato?
Il governo appena costituito dal Presidente del Consiglio Mario Draghi rappresenta un unicum, anche in un paese con una storia particolare come la nostra. Infatti i governi Dini1, e Ciampi2, due tecnici, erano governi con un forte mandato politico, l’uno di centro destra, l’altro di centro sinistra. Il governo Monti3 era un governo tecnico sia nella testa sia nella composizione, ma eseguiva, anch’esso, un preciso mandato politico, contenuto in un Programma negoziato dal governo di centro-destra con l’Unione Europea al fine di mettere in sicurezza i conti pubblici del paese, poi fatto proprio dal centro sinistra quando apparve che solo un governo di unità nazionale e tecnico potesse garantirne l’attuazione.
Qui siamo invece in presenza di un governo senza un mandato strategico-politico da parte dei partiti. Viste le dichiarazioni molto aperte fatte in sede di presentazione dal Presidente del Consiglio, si tratta di un governo che potrà essere giudicato soltanto quando si capirà in che modo intende realizzare gli obiettivi proposti, quali l’accelerazione della campagna vaccinale, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e gli altri obiettivi annunciati4.
Rispetto, per l’appunto, al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), come analizza il rischio, sollevato da alcuni italiani, che il recovery plan intensifichi il vincolo esterno sull’Italia, procrastinando così una crisi euroscettica di qualche anno?
Questa è un’enorme partita per l’Europa. Perché è la partita su cui l’Europa forse si avvia a (e rischia di) cambiare la propria governance.Ovvero emettere titoli di stato europei, andando nella direzione sana indicata Piketty ed altri, accompagnando al potere monetario un potere fiscale, un Ministro del Tesoro, un Parlamento che lo controlli etc… Quindi la partita ovviamente non è solo italiana. E se la partita va male, va molto male per l’Italia, ma va molto male anche per l’Europa, dato che quest’ultima si sta giocando la sua partita in Italia…
Cosa è stato fatto dal governo Conte II? Cosa cambierà con il governo Draghi?
Il governo Conte II è stato, in qualche modo, consapevole dell’importanza della partita che stava giocando: ci ha messo l’anima, nel modo in cui si lavora in quest’epoca, cioè negli uffici del governo. Dopo una partenza sbagliata – raccolta dei progetti esistenti, prima dell’identificazione di una gerarchia di obiettivi – e una prima bozza (a inizio dicembre 2020) fragile e con un’ipotesi di governance velleitaria, le critiche ricevute – anche le nostre, di Forum Diseguaglianze Diversità (ForumDD) – l’hanno indotto a modifiche, incorporate nella bozza approvata il 12 gennaio, da cui il Governo Draghi sta ora ripartendo.
Su quel testo noi del ForumDD abbiamo avanzato proposte puntualiaffinché il Piano divenga una strategia-paese. Sono proposte che riflettono diagnosi e visione del ForumDD. Bisogna rendere espliciti i risultati attesi in termini di condizioni di vita e lavoro, in modo da fornire un quadro di certezze per i milioni di italiani che stanno ricostruendo il loro piano di vita: per lavoratrici e lavoratori che non hanno o presto non avranno più un lavoro; per le PMI; per i giovani presi in contropiede dalla crisi. Farà per loro differenza sapere che aumenteranno i posti negli asili nido (fonte di maggiore uguaglianza di opportunità, di domanda nel territorio, di possibilità di lavoro specie per le donne), verranno rigenerati (energeticamente ed esteticamente) palazzi e luoghi pubblici, promosse imprese nella filiera verde, migliorati i servizi di cura e della salute e la mobilità, rafforzata la collaborazione imprese-università, e offerte opzioni di rilancio (magari attraverso Workers Buyout) a imprese in difficoltà. E sapere in quale misura e quando. Lo Stato può giocare questa carta, una carta keynesiana non solo nel senso di spingere la domanda aggregata, ma anche nel senso di dare certezze in una situazione di forte incertezza. E per fare ciò bisogna che, da un lato, siano coinvolte in prima fila, con forti missioni strategiche, le nostre grandi imprese pubbliche; e dall’altro che siano individuate le filiere territoriali di attuazione e siano investite del compito di attuare gli interventi rompendo, lì dove si possono rompere, i silos settoriali, e costruendo strategie territoriali che coinvolgano gli attori e siano monitorate e sollecitate.
Non è detto che non ce la facciamo. Ma per riuscirci è necessario che il nuovo governo, come avevamo chiesto al precedente, esca dalle sue stanze chiuse. Non si illuda che basta sostituire tecnici a tecnici. Si cambino tempestivamente, come spesso è necessario, i vertici delle amministrazioni centrali responsabili dell’indirizzo e poi si costruisca un confronto serrato e informato fra queste tecno-burocrazie e i saperi diffusi rappresentati dal forte partenariato sociale ed economico del paese. Non un “grande dibattito sui massimi sistemi”, ma un confronto sui singoli obiettivi strategici: raccolta di reazioni, quesiti e proposte; valutazione e decisione; informazione alle parti e al paese circa le decisioni assunte e le loro motivazioni. E poi, subito dopo, un reclutamento di giovani e forti risorse umane in tutte le filiere amministrative di attuazione, sfruttando l’opportunità unica del rinnovamento di un’intera generazione – oltre 500.000 posti da riempire – con bandi rapidi (3-6 mesi) e moderni, e curando poi l’inserimento con la saldatura fra “vecchi/e” e “nuovi/e” attorno ai risultati attesi del Piano. Su quest’ultimo punto il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi ha dato segnali convincenti. Non ha fatto lo stesso, ancora, sull’indispensabile dialogo sociale. Qui si gioca la partita italiana.
Il patto di stabilità va bene così o potrebbe essere abolito, come propone Olivier Blanchard?
La pars destruens di Blanchard è condivisibile ed evidente. È noto da tempo che un sistema “one size fits all”, che valuti la sostenibilità del debito su regole fisse, è un sistema inadatto, dato che, come osserva giustamente Blanchard, la sostenibilità è legata a una molteplicità di fattori: dai comportamenti futuri dei governi alle vicende del contesto esterno, alla fiducia degli investitori. Che a questo limite si possa trovare una soluzione, sostituendo un meccanismo composto da regole fisse con dei criteri discrezionali che verranno interpretati di volta in volta, valutando tali molteplici e variabili fattori, mi lascia dubbioso. Sorgono due possibili opzioni. Tale valutazione potrebbe essere affidata, come suggerisce Blanchard, ad un organo tecnico – nonostante il fatto si tratti chiaramente di una valutazione politica: tale opzione sottrarrebbe dunque ulteriore credibilità democratica. Alternativamente, la valutazione potrebbe essere affidata al Consiglio Europeo: ciò potrebbe mettere il Consiglio nella condizione di effettuare un bilanciamento di condizioni politiche, meno irrigidito di quanto non sia oggi. Opzione che rappresenterebbe, probabilmente, un passo in avanti, ma sempre soggetta alla volatilità del quadro delle alleanze inter-statali. Rimane il fatto che la vera soluzione si cela nell’evoluzione dell’Unione monetaria in un’unione politica: nella quale il neonato Stato federale europeo, valuterebbe, nel suo complesso, le scelte fiscali da prendere.
Lei coordina il Forum Disuguaglianze Diversità, una rete di associazioni e di accademici la cui visione e filosofia fa delle disuguaglianze il punto di partenza per ogni discussione, proposta ed azione politica. Oggi le disuguaglianze costituiscono una delle questioni strutturanti del dibattito sia scientifico che politico: come analizza l’evoluzione e la costruzione delle diverse posizioni riguardo alla questione?
Per usare un’espressione gramsciana, veniamo da un quarantennio segnato da una profonda modifica del senso comune, marcato dalla depoliticizzazione, personalizzazione e responsabilizzazione esclusivamente individuale degli stati di disagio e di minore accesso e opportunità di voce delle persone. Questo fino a modificare radicalmente la parola “povertà”: se nel Dopoguerra tale parola richiamava il contesto nel quale le persone erano nate, in cui si erano trovate a dover crescere e vivere, in quest’ultimo quarantennio la “povertà” viene assai spesso percepita come il frutto di una scelta individuale. Nessuno ha negato l’esistenza delle diseguaglianze, ma esse sono state reinterpretate come uno stato passeggero della vita degli individui e delle società, come frutto delle loro personali scelte.
Questa visione è poi cambiata?
Verso la fine di questo lungo periodo – nei primi anni 2000, anche prima della crisi del 2008 – la punta di diamante del pensiero neoliberale e liberale, The Economist, ha iniziato a percepire che la concezione delle diseguaglianze come stati temporanei – della vita delle persone o delle società – non reggeva. La teoria del trickle down effect, del “tanto poi si cresce e la ricchezza arriva a tutti”, era errata. Al livello europeo, questa consapevolezza era già molto forte – in grandi figure come Anthony Barnes Atkinson, e in reti di studiosi europei che portavano avanti il tema delle disuguaglianze personali e territoriali sul piano analitico ed empirico.
È una consapevolezza che ha radici nell’impianto costitutivo dell’UE. Ricordo che il Trattato UE alla parola “felicità’” presente nella Costituzione americana preferisce “harmonious development”, lo sviluppo armonioso che prevede che a ognuno sia data una chance. E che sin dai suoi albori la Comunità e poi l’Unione Europea mostrano piena consapevolezza del fatto che la libera circolazione di lavoro, merci e capitali tende di per sé ad accrescere le disuguaglianze territoriali. E dunque, che l’obiettivo della pace debba essere fondato su un’”identificazione” – la parola utilizzata da Freud nelle sue risposte a Einstein nel 1933 su cosa potesse evitare la guerra che incombeva – fra i cittadini dell’Europa, degli uni negli altri e nelle altre. Concetto fissato nell’obiettivo della “coesione”, valorizzato nei Trattati e, non a caso, da Jacques Delors quando si è imboccata la strada dell’Unione Monetaria, e di nuovo o ora nel Next Generation EU.
E invece, soprattutto dagli anni novanta, l’azione pubblica dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri muove in una direzione diversa e le disuguaglianze si aggravano. Nelle loro tre distinte forme. Al di là delle disuguaglianze “classiche”, ovvero economiche, di reddito e di ricchezza, che cessano di ridursi e spesso crescono, anche con forza, dagli anni ’80, ve ne sono due altre: quelle – assai gravi – di accesso ai servizi fondamentali, causate dall’indebolimento del welfare state, con la negazione e la corrosione dei sistemi pubblici della salute, della scuola, della mobilità, e dell’accesso e uso consapevole del digitale; e le disuguaglianze di riconoscimento, concetto fondamentale della filosofia tedesca, ovvero la negazione del riconoscimento del valore, del ruolo, dell’identità, dei valori propri a fasce della società, siano esse insegnanti, operai o residenti nelle aree marginalizzate, periferiche e rurali di tutta Europa. Come del resto avviene anche negli Stati Uniti.
E si noti che il mancato riconoscimento dei propri valori, la loro messa in discussione da parte di valori diversi, la sfida delle “diversità” all’omogeneità e unicità, rappresenta, secondo la grande politologa e studiosa di comportamenti umani, Karen Stenner, sin dal suo volume anticipatorio del 2005 (“The Authoritarian Dynamic”), il fattore scatenante di quella reazione di rabbia e risentimento da parte di chi ha una predisposizione, appunto, all’omogeneità. È l’insieme di questi fattori che, in assenza di un disegno alternativo progressista che proponga a un tempo forti valori comuni e uno scenario di vita possibile più giusto, spiega le spinte autoritarie dell’ultimo decennio.
Come si è tradotta tale consapevolezza in termini di proposte e iniziative concrete al livello europeo e internazionale?
Anche in Europa come negli Stati Uniti c’è stato chi ha previsto ciò che stava per succedere: Danuta Hübner, economista e social-democratica polacca, che aveva accompagnato e gestito l’entrata della Polonia nell’UE, avvertiva che questi fenomeni stavano aprendo faglie gravi. E che dietro pesava la negazione di ogni via collettiva di uscita: There is no alternative, it’s up to you…. Take your life in your hands; we can’t do anything about it. E così, divenuta Commissaria europea proprio alla coesione, ha tentato, nel 2008, la costruzione di una operazione europea che usi la politica di coesione come leva per aprire un’alternativa, luogo per luogo, nello spirito di Jacques Delors. Mi chiamò a costruire e coordinare la squadra e producemmo, attraverso un percorso di oltre un anno, un Rapporto di diagnosi e di proposte: “An Agenda for a Reform of Cohesion Policy”, che anticipava ciò che dieci anni dopo è diventato pensiero comune: le disuguaglianze personali e territoriali non sono sostenibili, la priorità politica sta nell’innalzare l’accesso e la qualità dei servizi fondamentali, per rendere davvero “europea” la cittadinanza. E proponeva opzioni concrete animate da un metodo, il place-based approach, nonché un modo di disegnare e attuare le politiche, né top-down né bottom-up, che unisce forti indirizzi generali di principio a livello europeo-nazionale-regionale con strategie territoriali affidate ai Comuni, con un forte dialogo sociale con la società civile, il mondo del lavoro e le imprese.
Tale tentativo è stato contrastato con forza dal pensiero neoliberista dominante incarnato dalla componente egemone della Banca Mondiale. Ma ha trovato invece nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), uno spazio di discussione (non a caso) nel Comitato sulle politiche territoriali5 – da cui matureranno alcune delle idee che Hubner farà sue. Questo in parallelo con altre importanti operazioni OCSE iniziate negli anni 2000 e 2010, operazioni intellettuali che hanno visto Enrico Giovannini6 – mio compagno di strada di una vita – in prima linea, e la Francia in una posizione interessante, con la Commissione Stieglitz-Fitoussi-Sen7 lanciata da Sarkozy nel 2007. E’ un’iniziativa che promuove la discussione sui limiti delle misurazione data dal PIL (“Beyond GDP”) e sull’instaurazione di nuovi indicatori basati sul benessere, e che ha costituito la base di diverse iniziative OCSE negli anni a venire, nonché dell’iniziativa ONU del 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Il tentativo ha influenzato il disegno della politica di coesione, ma non è stato raccolto dalla politica, rimasta ancorata all’impianto del ventennio precedente. Eppure inizia a maturare un’altra visione, che vede nelle diseguaglianze un fenomeno permanente, frutto di scelte – come dirà Anthony Atkinson – e non di fenomeni inevitabili. Non frutto della globalizzazione, ma di come l’abbiamo gestita: a partire nell’accordo TRIPs8 del 1994, che sbilancia il difficile equilibrio fra tutela della proprietà intellettuale e della conoscenza come bene comune prioritario dell’umanità – di cui paghiamo in queste ore, con i vaccini, le drammatiche conseguenze. E frutto, ancora, di un new public management che assume la conoscenza perfetta da parte di pochi centri di competenza e nasconde decisioni politiche dentro gusci tecnici. Fino a culminare in una sistematica disattenzione per i saperi diffusi. Queste sono, in estrema sintesi, nell’analisi del ForumDD, le cause dell’attuale stato di cose.
Certo, l’entrata in gioco in produzioni competitive di masse di forza lavoro in Cina, Indonesia e India tende a ridurre il potere contrattuale della classe operaia e medio-bassa dell’Europa. Ma anziché rispondere con un ruolo più forte e innovativo dei sindacati, si risponde delegittimandoli e considerandoli istituzione del passato. Così, gli sviluppi della tecnologia dell’informazione e del digitale destabilizzano i vecchi lavori. Ma di nuovo, a questa sfida non si risponde interrogandosi a livello di politiche pubbliche su come indirizzare il cambiamento affinché produca buoni e non cattivi lavori, ma lasciando fare a una supposta intelligenza del mercato e permettendo che le piattaforme digitali diventino possesso esclusivo e monopolio di poche corporation. Si abbandona così il terreno di quella che sta diventando la nuova grande leva di trasformazione mondiale. Insomma, l’attuale grave stato delle disuguaglianze è frutto di scelte, di politiche e di quel cambiamento di senso comune da cui siamo partiti.
I populismi presenti in Europa oggi sono quindi il frutto del ritardo di comprensione del ruolo strutturale delle disuguaglianze?
Certamente. Alle lacerazioni sociali i partiti di sinistra e centro-sinistra, egemonizzati dalla cultura neo-liberista, non danno risposta e cessano di esercitare “rappresentanza”. La democrazia viene mortificata perché il suo metodo di formazione delle decisioni e di attuazione della sovranità popolare viene ridotto al voto, negando e chiudendo gli spazi per il metodo del “governo attraverso il dibattito”, per la partecipazione, per il confronto acceso, aperto, informato e ragionevole: il solo strumento, come scrive Amartya Sen, che consente di prendere decisioni giuste. Da qui, la nascita di movimenti e populismi. Da un lato, la nascita di forme nuove di azione politica, anche assai diverse: partiti-movimenti, movimenti che combinano azioni pratiche locali e solidarietà internazionale ma rifuggono dal misurarsi con le istituzioni (folk politics, li definiscono Nick Srnicek e Alez Williams), organizzazioni di cittadinanza attiva che realizzano azioni collettive o influenzano le azioni pubbliche, e alleanze, come quella dello stesso ForumDD. Dall’altro, a volte in connessione con queste forme, la ricerca di forme semplificate che tornino a rendere visibile il popolo. Che si definisca il populismo con Pierre Rosanvallon9o con Chantal Mouffe10, esso costituisce un tentativo di ricostruire una visibilità del popolo. Che tuttavia può evolversi in direzioni assai diverse.
Si potrebbe dunque valutare lo scontento come un elemento positivo, in quanto epifenomeno del malfunzionamento del sistema? In questo senso, è abbastanza facile pensare il populismo in termini positivi, associandolo ad esempio alle recenti manifestazioni e rivolte in America Latina – che hanno addirittura portato, in Cile, alla formazione di un’Assemblea costituente. Diventa però più difficile quando ci si riferisce all’episodio di Capitol Hill. Lei ha scatenato una polemica su Twitter riguardo a questa vicenda, indicando l’insurrezione come una conseguenza delle diseguaglianze negli Stati Uniti. Non si tratta qui giustificare l’ingiustificabile?
Non dobbiamo mai confondere la parola “giustificare” con “spiegare”. Giustificare è riconoscere la validità di un modo di comportamento; spiegare significa non accontentarsi di semplificazioni – in questo caso, classificare Trump come causa e non, primariamente, come effetto – e ricercare le ragioni ultime di ogni fenomeno. Il fatto è che sinora il populismo, che pure può aprire opportunità per il rilancio di progetti di emancipazione, è stato colto e cavalcato assai più di frequente e con ben più efficacia da progetti autoritari di destra, in Italia come altrove nell’Occidente.
Il populismo è uno stato transeunte, non è una condizione stabile. Si manifesta e scatena quando viene meno quello che Rosanvallon chiama il popolo sociale, quando rimane solo il popolo costituzionale e numerico. Quando viene negata al popolo, attraverso l’indebolimento dei corpi intermedi e della democrazia, la possibilità di contare e di combattere, o, come direbbe Albert Hirschmann, di avere una voce. Gli si dà solo la possibilità di exit. Allora la democrazia si impoverisce, e scattano questi meccanismi. Nel fenomeno populista ci sono due anime: da un lato, il tentativo di ricostruire canali di rappresentanza che non ci sono più; dall’altro, la tentazione di risolvere proprio la complessità della rappresentanza in un rapporto diretto con un leader, un grande semplificatore, un Cesare.
Nella storia, abbiamo assistito all’evoluzione in entrambe le direzioni. Il populismo americano anti-baroni della finanza a cavallo fra ‘800 e ‘900 si evolve e influenza il Partito democratico alimentando di idee e di impulsi il New Deal. Si pensi, anche in termini di virulenza del linguaggio e di radicalità della battaglia contro poteri che apparivano invincibili, ai lavori e alle conclusioni della Commissione del Senato diretta dall’italo-americano Ferdinand Pecora11, che condurrà, fra l’altro, alla disgregazione della Banca Morgan. L’altra strada è quella del fascismo: stessa rabbia, stesso scontento, stessa incapacità di trovare una rappresentanza. Che tuttavia determina, è cavalcata e incanalata, da una proposta autoritaria. Quindi il populismo può prendere due strade: o rigenera la democrazia, o diventa autoritarismo. Ha in sé entrambe le potenzialità.
Chi dovrebbe essere l’attore politico responsabile di promuovere un processo che dia una voce al popolo, nel contesto delle strutture partitiche esistenti oggi in Italia e in Occidente?
I partiti rappresentano, in Italia anche per dettato della Costituzione, l’associazione fondamentale della democrazia. Al giorno d’oggi, i partiti si dovrebbero lasciare rigenerare dalla domanda di ricostruzione di un popolo sociale, e tornare ad esercitare questa nuova funzione all’interno del quadro democratico. Ma non nello stile degli anni del trentennio post-bellico! Non si tratta di ricostruire partiti di massa.
E questo per due ragioni fondamentali. In primo luogo, perché oggi i saperi sono diffusi: l’istruzione di massa, con tutti i suoi limiti, fa sì che milioni di essere umani in Europa, come altrove, abbiano i saperi che servono a governare: pazienti, studenti e studentesse, anziani e anziane, pendolari… tutti sentono di poter contribuire e possono contribuire al disegno dei servizi fondamentali. Non esprimono solamente bisogni; esprimono anche soluzioni. E questo richiede una democrazia diversa da quella che avevamo quarant’anni fa.
In secondo luogo: oggi torniamo a riconoscere il tema gravissimo della subalternità di classe, ovvero della necessità di un riequilibrio di poteri fra chi controlla solo il proprio lavoro e chi controlla anche il capitale, materiale o immateriale che sia. Ciò si accompagna anche con consapevolezze che nacquero, ma non furono abbastanza fertili, nel ’68: la consapevolezza di altre tre subalternità, quella di genere, di razza, e una subalternità di tutti noi a noi stessi, sarebbe a dire il riconoscimento della non sostenibilità ambientale. Io qui sono mouffiano [da Chantal Mouffe, ndr]: ricostruire la democrazia significa ricostruire arene di confronto e di raccolta di saperi, di elaborazione di decisioni e atti che diano forma e allo stesso tempo soddisfino queste quattro subalternità, senza perderne la specificità.
Che fare? Come ricostruire la democrazia?
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Dal 17 gennaio 1995 al 18 maggio 1996
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Dal 29 aprile 1993 al 13 gennaio 1994
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Dal 16 novembre 2011 al 21 dicembre 2012, in cui Fabrizio Barca ha ricoperto la carica di Ministro per la coesione territoriale
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Fabrizio Barca, statistico ed economista, è oggi coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità, dopo aver ricoperto una serie di importanti ruoli istituzionali, dalla Banca d’Italia all’OCSE, dal Ministero Economia e Finanze alla carica da Ministro per la coesione territoriale nel governo Monti
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Inizialmente nato all’OCSE nel gennaio 1995 come servizio delle politiche territoriale (TDS), si è poi formato come Comitato delle politiche territoriale, offrendo a Fabrizio Barca la presidenza. Per ulteriori informazioni, si legga l’articolo di Mario Pezzini (Direttore del Centro di Sviluppo dell’OCSE e precedentemente a capo della Divisione Politiche territoriale in carica del Comitato).
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Enrico Giovannini, oggi a capo dell’associazione ASviS e da pochissimo Ministro delle Infrastrutture con il governo Draghi, è stato precedentemente Direttore del Dipartimento di Statistica dell’OCSE. Il quel periodo, lanciò diverse iniziative, fra cui una serie di forum in giro per il mondo (OECD World Forum on “Statistics, Knowledge and Policies” – il primo a Palermo, nel 2004), discussioni che promuova l’utilizzo di nuovi indicatori e la condivisione delle best practices e delle strategie di valutazione del progresso e benessere dei vari paesi. Giovannini è stato membro della Commissione Stieglitz-Sen-Fitoussi del 2007, ripresa poi nel 2013 dalla sua succeditrice al Dipartimento di Statistiche Martine Durand.
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Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. La Commissione Stieglitz-Sen-Fitoussi (da Joseph Stieglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, celebri economisti), lanciata nel 2004, è stata seguita da un Alto Gruppo di Esperti basato all’OCSE – l’High Level Expert Group on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. Le raccomandazioni della Commissione del 2004 sono poi state utilizzate ed hanno dato vita a diverse iniziative OCSE: la ripresa dell’High Level Expert Group nel 2013 con Martine Durand, l’iniziativa “Better Life Initiative” nel 2011, l’iniziativa UE “PIL e oltre” nel 2009
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The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights – Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale. Accordo promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1994 al fine di standardizzare la tutela della proprietà intellettuale.
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Cfr. P. Rosanvallon, Pensare il populismo, Roma, Castelvecchi, 2011.
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Cfr. C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Roma-Bari, Laterza, 2018.
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Ferdinand Pecora è stato avvocato e magistrato statunitense. Negli anni 1930, in quanto capo consigliere della commissione del Senato degli Stati Uniti, diresse le investigazioni sulle attività bancarie di Wall Street e sulle pratiche di brokeraggio. Interrogò personalmente uomini ricchi e potenti (Richard e George Withney, Thomas W. Lamont), mettendo alla luce una serie di pratiche irregolari inerenti ai mercati finanziari, che favorivano i ricchi a spese dei comuni investitori. A seguito, il congresso degli Stati Uniti decise di emanare il “Glass-Steagall Act” ed il “Securities exchange Act” del 1934.
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