Qualsiasi esecutivo avremo di fronte nei prossimi mesi il tema del carico fiscale rimarrà centrale. Il cambiamento sociale dipende dalla distribuzione della ricchezza: le tasse vanno diminuite ai lavoratori e aumentate ai più ricchi.
Un pezzo di Salvatore Morelli, economista e membro del ForumDD pubblicata su Jacobin il 20 agosto 2019.
Lo scoppio della crisi di governo sembra destinata a imporre uno stop ai progetti di flat tax, cardine della campagna elettorale del centrodestra e anche del successivo contratto di governo. Eppure, che si vada a una campagna elettorale lampo, o che si configuri invece un governo più o meno “del presidente” per affrontare la finanziaria, il tema delle tasse – e della distribuzione del carico fiscale fra i diversi gruppi sociali – rimarrà cruciale. Che si tratti di disinnescare l’aumento dell’Iva o di fare una riforma dell’Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche), si tratta di misure di fondamentale rilevanza economica e politica.
In Italia – è bene dirlo subito – i lavoratori dipendenti e quelli che dichiarano regolarmente i propri guadagni pagano tante imposte, troppe secondo alcuni. Sarebbe davvero importante una seria riforma fiscale che, oltre a ridurre drasticamente l’evasione fiscale, riduca il carico delle imposte per i lavoratori redistribuendolo sui più ricchi, rafforzando la progressività delle imposte nel suo complesso che è oggi lontana da ciò che richiedono le crescenti disuguaglianze economiche. Invece, da mesi, il tema è monopolizzato dalla cosiddetta flat tax, la quale avrebbe risultati opposti.
La strana storia della flat tax
In teoria, stando al significato letterale dell’espressione flat tax (e alle proposte presentate dalle diverse forze di centrodestra, ma anche da un think tank neoliberale come l’Istituto Bruno Leoni), si tratterebbe di un’imposta con aliquota unica per tutti i redditi – o per quelli al di sopra di una certa soglia di esenzione. In pratica, si riferisce a una non meglio specificata e incerta riforma dell’Irpef . Obiettivo dichiarato è ridurre il numero di aliquote – e in particolare eliminare quelle più elevate.
In un clima di totale incertezza sulla proposta effettiva di riforma appare utile affidarsi all’ipotesi di “quasi flat tax” contenuta nel contratto di governo gialloverde. Secondo questa proposta, si prevedono due aliquote marginali, del 15 e del 20%. La nuova imposta si applicherebbe al reddito familiare con una deduzione di 3.000 euro per ogni componente familiare. Anche se non direttamente specificato, alcune dichiarazioni pubbliche di esponenti della Lega hanno lasciato intendere che l’aliquota del 15% si applicherebbe fino a 80 mila euro di reddito familiare e quella del 20% per tutta l’eccedenza. Oggi, invece, l’Irpef si applica sui redditi indivuali e si basa su 5 aliquote marginali che vanno dal 23% per i redditi sotto i 15 mila euro, al 43% per i redditi superiori ai 75 mila euro.
Può essere utile un esempio partendo dal rapporto annuale Inps 2019 che ha messo in evidenza come, negli ultimi trent’anni, la crescita dei redditi si sia concentrata principalmente sui lavoratori dipendenti privati italiani con super-stipendi (quelli oltre i 530 mila euro annuali). Con 530 mila euro di stipendio si versa oggi il 23% sui primi 15 mila; 27% sui successivi 13 mila; e via così, fino al 43%, applicato solo sui redditi guadagnati al di sopra della soglia di 75 mila euro. In totale, non considerando le addizionali regionali e comunali, l’imposta Irpef che dovrà essere versata da una ipotetica fortunata dipendente ammonterebbe a poco più di 220 mila euro. Con la “quasi flat tax” contenuta nel contratto di governo, le imposte dovute dalla nostra stessa ipotetica dipendente (single e senza figli per semplificare) diminuirebbero di più della metà, a circa 102 mila euro. Il risparmio netto sarebbe di circa 120 mila euro. Non male, considerando che il suo ipotetico collega (anche lui single e senza figli) con un reddito annuale di 23 mila euro risparmierebbe solo circa mille euro.