Una breve sintesi dell’ultima edizione, l’ottava, dell’Atlante dell’Infanzia a rischio, pubblicazione annuale che Save The Children dedica ai più piccoli e agli adolescenti. Dati, mappe e storie utili a scattare una fotografia del presente e orientare in questo modo l’agire pubblico e collettivo a tutela dei minori e delle loro esigenze.
Quest’anno l’Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children – alla sua ottava edizione, edito da Treccani – è dedicato alla scuola e alla sfida educativa che il nostro paese deve affrontare per garantire a tutte le bambine e a tutti i bambini le opportunità per sviluppare talenti e aspirazioni. L’Atlante entra sul tema da un punto di vista preciso: quello dei bambini e degli adolescenti in condizione di maggior rischio e per i quali la scuola rappresenta un’ancora di salvezza. E’ una Lettera alla scuola scritta 50 anni dopo la pubblicazione di Lettera a una professoressa (1967), in cui i ragazzi di Barbiana, alunni di Don Milani, hanno provato a ricostruire con l’aiuto dei numeri e in largo anticipo sui tempi fenomeni che oggi si definiscono dispersione scolastica e fallimento formativo: gli studenti che abbandonano gli sudi sono “persi alla scuola”, quelli che non raggiungono livelli sufficienti e poi vengono bocciati sono i “persi alle classi”. L’Atlante dell’infanzia 2107 analizza, tra le altre cose, quali nuovi significati ha assunto nel Duemila l’espressione “sparare nel cespuglio”, cioè in che modo operano le diseguaglianze sociali sulle carriere scolastiche degli alunni più svantaggiati, e cosa ci dicono le più recenti acquisizioni in merito. «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Fino all’ottobre seguente non sapete cosa avete fatto. È andato a lavorare o ripete? E se ripete gli farà bene o male? Si farà le basi per seguitare meglio o invecchierà malamente su programmi non adatti a lui?» (p. 39).
L’indagine internazionale PISA (Programme for International Student Assessment) 2015, promossa dall’OCSE su un campione di quasi mezzo milione di studenti di una sessantina di Paesi del mondo, restituisce un’immagine qualitativa e comparativa del fenomeno, desunta dalle risposte date dai ragazzi quindicenni a un apposito questionario. In media nei Paesi OCSE, poco più di un alunno quindicenne su dieci ‒ l’11,3% degli studenti interpellati dalla ricerca ‒ afferma di aver dovuto ripetere almeno un anno lungo il percorso che porta dalla primaria all’inizio della scuola secondaria di secondo grado. Poco meno dell’1% è stato bocciato più di una volta alle scuole secondarie di primo e secondo grado.
L’Italia fa registrare un tasso di ripetenze del 15,1% ‒ il settimo più alto tra i Paesi UE, superiore di 4 punti alla media OCSE ‒, un dato che smentisce il luogo comune che, dopo Lettera a una professoressa, in Italia non si boccia più. È invece interessante osservare l’effetto benefico delle politiche promosse dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) a livello di scuola primaria, anche in seguito alla denuncia di Barbiana: con l’1,2% appena di ripetenti l’Italia fa registrare il dato più basso in Europa in questo ordine di scuola dopo quello dell’Islanda e di Giappone e Norvegia dove a tutti gli alunni in obbligo scolastico è garantita la promozione. Preoccupa al contrario il dato elevato di alunni quindicenni che dichiarano di avere ripetuto più volte l’anno alla scuola secondaria di primo e/o secondo grado: sono l’1,3% contro una media OCSE dello 0,9%.
PISA 2015 permette inoltre di realizzare tutta una serie di elaborazioni sulla tipologia prevalente degli alunni chiamati a ripetere l’anno e mostra inequivocabilmente la correlazione tra condizioni di svantaggio sociale e maggiore incidenza delle ripetenze. «In media nei paesi OCSE – si legge nel rapporto ‒ gli studenti socio-economicamente svantaggiati, con un background migrante, in prevalenza maschi, hanno più probabilità di ripetere l’anno, anche a parità di risultati, motivazione e comportamento». Per poter osservare all’opera tali fattori, l’indagine PISA ha messo a punto un apposito indice di status socioeconomico culturale (ESCS, Economic Social and Cultural Status) che incrocia la variabile della professione dei genitori con il livello di istruzione dei genitori e la dotazione in famiglia di beni e disponibilità culturali (libri, scrivania ecc.). Questo indice permette di calcolare lo status medio di ciascuna scuola, di suddividere gli istituti in quattro categorie (quarti), dal livello più basso a quello più elevato, e di istituire confronti e analisi. In Italia, ad es., il ricorso a questo espediente ci aiuta a vedere come nelle scuole caratterizzate da indice ESCS medio più basso (primo quarto) il tasso di ripetenze raggiunga il 27,4%, mentre nelle scuole contraddistinte da un indice elevato (quarto quarto) l’incidenza si fermi al 4,4%: uno scarto di 23 punti percentuali. Nella mappa qui sotto abbiamo quindi rappresentato questo scarto in tutti i paesi europei in cui l’OCSE è riuscita ad elaborare il dato. Lo scarto che si registra in Italia è di 9 punti sopra la media OCSE (14,3%), uno dei differenziali più alti in Europa dopo Francia, Belgio Portogallo e Spagna.
Come nella maggioranza dei Paesi OCSE anche in Italia il tasso di ripetenza è esplicitamente correlato ai risultati scolastici: si calcola che un aumento di 100 punti nei test di matematica sia associato al 56% di riduzione di probabilità di ripetere l’anno. A tale proposito risulta interessante anche il grafico elaborato da Invalsi sui risultati ai test in quinta elementare disaggregati per livello ESCS (che Invalsi calcola in modo simile all’OCSE PISA), che confermano già alla fine della scuola primaria disuguaglianze nelle competenze di base, in italiano e matematica, legate al livello socioeconomico degli alunni, in grado di aumentare i fattori di rischio bocciatura alla scuola secondaria.
La ricerca dell’OCSE condotta sui dati PISA 2015, oltre a ricordare che «la politica delle ripetenze può essere costosa, perché generalmente richiede spese maggiori in educazione e ritarda l’ingresso degli studenti nel mercato del lavoro», non manca di segnalare come «negli ultimi decenni una gran mole di ricerche e di articoli in diversi campi abbia evidenziato gli effetti negativi delle ripetenze sugli esiti scolastici. Gli studenti che hanno ripetuto l’anno mostrano spesso attitudini e comportamenti negativi e hanno più probabilità di abbandonare la scuola. Inoltre, ogni effetto positivo nel breve termine declina con il procedere del tempo».
A cinquant’anni da Lettera a una professoressa, non possiamo più limitarci ad annoverare tra i «persi alla scuola» solo le vittime dell’abbandono precoce o di altre forme di dispersione formativa vera e propria, ma dobbiamo necessariamente comprendere tutti quei bambini e ragazzi che pur restando all’interno del sistema scolastico finiscono impantanati nelle sabbie mobili delle povertà educative.
«Vi è un forte legame bi-univoco tra povertà e istruzione e disagio socioculturale – ha affermato Marco Rossi Doria, in un’audizione alla Camera qualche anno fa. – La scuola emancipa dalla povertà ma le condizioni di partenza contribuiscono fortemente a determinare a loro volta il fallimento formativo». La scuola deve invece rappresentare un vettore di emancipazione per chi parte più indietro, il fondamento della costruzione di una società che garantisca diritti e pari opportunità per tutti.
Questa e molte altre analisi sulla scuola e sull’infanzia in Italia sono contenute nell’Atlante dell’infanzia 2017.