L’intervento di Maria Grazia Cogliati Dezza all’evento in streaming “Disuguaglianze nell’epoca delle crisi. Un anno di vita e più utili che mai: le nostre 15 proposte” (25 marzo 2020).
La crisi del coronavirus interroga il Sistema Sanitario italiano. Finalmente, verrebbe da dire!
1. Molti soggetti intervistati in questi giorni dai media concordano su 2 punti:
a) il SSN è il migliore che si possa avere; b) il SSN ha subito negli anni un pesante disinvestimento in termini di finanziamento e organici.
La classe politica che negli anni lo ha indirizzato, aggiungo, non è stata coerente con il carattere di sistema universalistico che è l’ impronta culturale più significativa del Sistema Sanitario italiano. Tornerò su questo punto.
2.A proposito del taglio lamentato di posti letto ricordo che leggi e atti programmatori della fine degli anni 90, finalizzati soprattutto a definire organizzazione e finalità dei servizi territoriali, indirizzavano a una riconversione della spesa: da una lenta riduzione di posti letto di ospedale a un contestuale e graduale sviluppo di servizi territoriali, normando la nascita dei Distretti sanitari. Ricordo in particolare una direttiva di quegli anni che stabiliva che un 55% del finanziamento per il sistema sanitario doveva essere finalizzato allo sviluppo dei servizi territoriali e un 45% a quello dell’ospedale. Direttiva mai realizzata!
3. Se è vero che c’è stato un taglio di posti letto che, come detto, era stato normato in una visione di sistema, è ancor più vero che i servizi territoriali si sono sviluppati troppo poco e a macchia di leopardo. Poco per quantità, per risorse assegnate, ma poco anche per cultura che, troppo spesso, è rimasta quella del modello ospedaliero: la Malattia e non il Malato.
E se nell’ospedale l’oggetto precipuo dell’interesse giustamente non puo’ che essere la malattia, nel territorio invece, se si vuole raggiungere tutti coloro che hanno bisogno di cura, ovvero se si vuole garantire l’universalità del sistema e la salute come diritto di tutti, non si può prescindere dalle caratteristiche precipue di ogni singolo individuo, a partire dai determinanti di salute.
Pena l’inefficacia della cura.
4. Si è invece sviluppato, e non solo in Lombardia, il privato, soprattutto accreditato, ovvero finanziato con soldi pubblici, che, nonostante ciò, risponde troppo spesso al particolare interesse privatistico del massimo guadagno e molto spesso si esaurisce con un’offerta di soli posti letto. Negli anni le Regioni sono state molto deboli o del tutto assenti nel vincolare l’offerta di servizi e prestazioni del privato accreditato alle esigenze della comunità locale. Cosa che avrebbero potuto fare, garantendo in tal modo un’offerta complessiva, erogata da un sistema pubblico-privato, mirata, in risposta alle molteplici e diverse esigenze di salute di ogni singolo territorio. Così non è stato, fatto salve alcune particolari esperienze.
5. Ci stiamo interrogando, in questi giorni, sull’alto tasso di ospedalizzazione e di mortalità di soggetti contagiati da coronavirus nella regione Lombardia. Tante le possibili concause chiamate in gioco. Al proposito, tra le altre, vorrei ricordare i dati del ministero della salute riportati da Paolo Vites su il sussidiario net del 17 marzo scorso.
Rispetto al tasso di ospedalizzazione: il Veneto ricovera il 26% degli infetti; l’Emilia Romagna il 47%; la Lombardia il 75%. Mentre la copertura di assistenza domiciliare nelle stesse regioni ha un andamento opposto, ovvero è alta laddove il tasso di ospedalizzazione è basso. Copertura di assistenza domiciliare: nel Veneto= 65%; nell’Emilia Romagna=46%; nella Lombardia= 14%.
Facili e conseguenti alcune considerazioni: l’ospedale è patogeno, chi è più fragile, se ricoverato, rischia di ammalarsi di altre patologie. La cura a domicilio previene danni maggiori e complicanze, riduce al minimo le possibilità di contagio, può intervenire sulle diseguaglianze di salute poiché si opera e si conosce ogni specifico e particolare contesto.
6. A Trieste e poi nella regione FVG, dal lavoro di deistituzionalizzazione di Franco Basaglia e dalla cultura sottesa, si è sviluppato, su aree di circa 60.000 abitanti, un adeguato sistema di servizi territoriali, di salute mentale, dipendenze, distrettuali, con buoni livelli di integrazione tra gli stessi, con i servizi sociali e con l’ospedale, nonché con i soggetti attivi sul territorio. Servizi che abbiamo chiamato FORTI, per risorse, per organizzazione, per culture perché proattivi, di prossimità, fondati sull’andare verso, capaci di piegarsi alle specifiche esigenze individuali, che conoscono il territorio ove sono ubicati. All’interno di questa organizzazione sono nate le Microaree.
7. Le microaree. Nascono nel 2004/2005 dall’evidenza che in alcuni rioni della città, caratterizzati da prevalenza di caseggiati di edilizia residenziale pubblica, connotabili per le caratteristiche sociali e urbanistiche come rioni di periferia urbana o extra, si registravano standards di salute pessimi e condizioni sociali molto precarie. Un Accordo di Programma che si rinnova periodicamente stabilisce la collaborazione in queste aree tra l’Azienda Sanitaria, il Comune e l’Ater di Trieste, le finalità del progetto, le articolazioni intermedie di governo: mappare il territorio, conoscere tutti gli abitanti, rispondere adeguatamente a esigenze di salute, sociali e abitative; coinvolgere enti e associazioni che insistono sullo specifico territorio e soprattutto cittadini, valorizzati quali risorse naturali per lo sviluppo di benessere, reciprocità e capitale sociale. In ogni microarea c’è una sede. Vi lavora un operatore sanitario distaccato a tempo pieno con funzioni di attivatore, coordinatore delle risorse dello specifico territorio, nonchè di “ponte” tra queste e i servizi formali che insistono nell’area. Sono presenti anche due portieri sociali, per l’Ater e il Comune. Al momento le Microaree sono 17, si rivolgono a una popolazione di circa 20.000 abitanti.
8. L’articolazione e lo sviluppo dei servizi territoriali e delle microaree oggi sono messi in forse dalle attuali amministrazioni locali. È davvero singolare che la Regione FVG piuttosto che valorizzare le esperienze in atto nel proprio territorio guardi al peggio del modello lombardo. E’ urgente attivare al riguardo un dibattito pubblico che coinvolga i responsabili della sanita’ del governo centrale e delle regioni. Il coronavirus ha avuto il pregio di aprire la strada. Non fermiamoci.