Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica Napoli lo scorso 11 ottobre 2018.
Nella testa del governo, i poveri vanno si aiutati ma con la consapevolezza che molti di loro sono furbi e pigri e che, tutto sommato, sono responsabili della loro povertà. A volte poi occorre stare attenti perché i poveri sono anche imbroglioni, per cui è meglio anticipare negli annunci sulla misura che in caso di comportamenti non idonei o illegali, sono previste pene fino a sei anni. Questa è la prima sensazione che si ha leggendo le anticipazioni sul “reddito di cittadinanza” (ma in realtà non è così essendo misura selettiva rivolta solo ai più poveri) e ascoltando le dichiarazioni, questa volta non dal balcone, del Ministro Di Maio.
Intendiamoci, soprattutto se si guarda alla cosa da una città come Napoli che continua ad essere, per molti versi, un epicentro della povertà in Italia, il fatto che questo Governo abbia messo quasi 10 miliardi di euro per intervenire sul terreno della povertà, e che soprattutto ne abbia fatto oggetto di centralità nella manovra economica e motivo di scontro politico, è un fatto importante che va riconosciuto. Una scelta che la sinistra aveva incominciato a fare con il Rei, ma troppo tardi e in modo troppo debole, per altro proponendo altre misure che nei fatti allargavano l’area della povertà e della vulnerabilità economica invece che contrastarla (come per altro fa anche questo Governo con la flat-tax, o con la riforma delle pensioni o, ancora con il condono fiscale, tutte misure che tutelano più i ricchi e i garantiti piuttosto che i più fragili).
Ma, tornando al reddito, quello che è fortemente criticabile è il pensiero che sembra esserci dietro alla misura e alle modalità con cui sarà erogata. In primis, l’uso esclusivo della “carta prepagata” con la conseguenza che i destinatari della misura potranno solo spendere e non invece decidere di mettere a risparmio almeno una parte del contributo, magari in previsione degli studi dei figli o per fare fronte a future e possibili emergenze a carattere economico, rende fortemente depotenziata la capacità di incidere in prospettiva sull’uscita dei destinatari stessi dalla condizione di povertà. Infatti, la norma prevede che quello che non verrà speso ogni mese andrà perso. Sempre sulle spese, poi, ci sarà un catalogo di quelle ammissibili o meno, già preannunciando che quelle considerate “immorali” non saranno accettate. Quindi, il messaggio sembra essere: “Cari poveri, oltre a controllarvi perché so che se vi lascio soli con i miei soldi fate inganni, vi anticipo anche che se volete il mio aiuto dovete spendere sulla base di quello che noi – Governo – riteniamo giusto o sbagliato. Quindi, anche se sei depresso perché non riesci a trovare lavoro, sappi che le sigarette che fumi per stress (ma in fondo in fondo solo per vizio) te le compri da solo”.
La seconda questione riguarda l’obbligo, pena la perdita della misura, di cercare lavoro e di impegnarsi in lavori socialmente utili, almeno per un po’ di ore alla settimana. Anche qui, non è lo sfondo ad essere sbagliato ma la modalità con cui si interviene, come se chi non ha lavoro è in tale condizione perché nei fatti non fa nulla per trovarlo (di nuovo l’idea giudicante della responsabilità dei poveri per la loro condizione”). Forse occorrerebbe pensare che invece “dell’obbligo a” si accompagni la misura con una profonda riforma e rivisitazione dei centri per l’impiego (questa per altro prevista) e con un’inversione di rotta nelle scelte politiche in materia di welfare. Iniziando con l’interrompere il costante percorso di sottrazione di risorse che ha caratterizzato le politiche degli ultimi 20 anni, ritornando ad investire sui servizi sociali territoriali e su interventi integrati tra pubblico e privato sociale che sappiano aiutare – perché vicini e non giudicanti – i destinatari che accederanno alla misura a superare gli ostacoli, soggettivi e di contesto, che ne determinano la condizione di povertà.
Quindi un giudizio positivo sulla scelta del Governo in relazione al forte investimento sulla povertà ma in modo altrettanto netto una forte critica al modello e al metodo di attuazione. Un modello che rischia seriamente, come su molte altre misure di questo governo che anche quando giuste sembrano preoccupate più del piano della propaganda e della rappresentazione che delle ricadute sulla realtà, non solo di ottenere pochi risultati ma di finire per avere effetti contrari e opposti e dichiarati. Come giustamente detto da Chiara Saraceno sulle pagine nazionali di questo giornale, il rischio è che i “poveri siano trasformati non in cittadini ma in consumatori forzati sotto tutela”.