Articolo pubblicato su Repubblica Napoli il 17 settembre 2020.
Onestamente non so dire se nell’aggressione animale e vigliacca che ha ucciso Willy Duarte abbia pesato di più il razzismo o il fascismo, o ancora l’eccitazione del branco che ti fa perdere il controllo o un’idea di “mascolinità” che coinvolge ancora troppi uomini, come peraltro ci sbatte in faccia il numero insopportabile di femminicidi e degli episodi di violenza maschile sulle donne. Forse, nel caso specifico, si è verificato un terribile mix di tutto questo, ma quella che invece mi sembra essere la vera urgenza su cui concentrare l’attenzione, è che se si ha il coraggio di guardare bene attorno a noi si vede come quella violenza non sia solo circoscritta al contesto dove ha avuto luogo ma sia in realtà molto più diffusa. E’ un virus che incontriamo anche nelle nostre strade, sui mezzi pubblici, quando siamo al mercato o beviamo una caffè, a volte nei giri ristretti delle nostre relazioni e che per questo non possiamo pensare come un “altrove” che non ci riguarda.
E, che ci piaccia o no, se fossimo più attenti vedremo come in molti contesti di periferia e di degrado sociale e urbano, dove la marginalità è così dura da farti mancare il respiro, da privarti anche della sola possibilità di poter aspirare ad un futuro migliore, per molte ragazze e ragazzi la violenza insieme all’idea di una identità che si forma sul dominio dell’altra differente appare come l’unica possibilità per rivendicare la propria esistenza.
E allora, se è giusto condannare e personalmente mi auguro che gli autori dell’omicidio di Willy vengano colpiti nel modo più duro possibile (sempre rispettando i limiti e le regole sancite in modo lungimirante dalla nostra Costituzione che tutelano la legge dal rischio di trasformarsi in vendetta e quindi a tutte e tutti noi di mantenere la nostra civiltà e la nostra umanità), allo stesso tempo limitarsi a questo aspetto sarebbe insufficiente e forse dannoso. Dannoso perché ancora una volta la sola condanna, l’accontentarsi di questo risultato, finirebbe per colludere con la rimozione in poco tempo dal dibattito pubblico e politico della necessità di intervenire a monte per rimuovere le cause strutturali (economiche, sociali e culturali) che alimentano tali dinamiche negative. Che portano molte e molti giovani a sentirsi estranei e lontani dalle responsabilità che comporta l’essere cittadine/i.
Così come non basta, anche se è sacrosanto ribadirlo in un Paese che spesso perde la memoria delle proprie radici democratiche, riaffermare i valori dell’anti-fascismo e del rifiuto di ogni forma di razzismo e discriminazione.
Quello che occorre da subito – anche a partire dall’orientare in tale senso parte delle risorse che arriveranno nei prossimi mesi dalla Comunità Europea – è un investimento politico culturale che metta al centro, assuma tra le priorità, la rimozione delle disuguaglianze e delle povertà, che peraltro il Covid ha ulteriormente allargato e reso più dure.
Occorre al più presto: investire su scuola, formazione e sui processi educativi (partendo, soprattutto nelle periferie dalla diffusione del tempo pieno; dal riequilibrare lo squilibrio tra Nord e Sud sui servizi 0-6, con un occhio particolare ai primi tre anni di vita; da un’implementazione del piano nazionale di contrasto della povertà educativa). Raccogliere con programmi e politiche innovative la nuova domanda di servizi e beni fondamentali che può dare vita a buone imprese e buoni lavori nella cura delle persone, nell’educazione, nella casa, nella cultura, nella mobilità (anche connettendo in modo stretto e utile le politiche di sostegno al reddito con quelle attive del lavoro, guardando in particolare all’occupazione femminile e a quello dei giovani). Superare una visione dei servizi sanitari e socio-sanitari che negli ultimi anni è stata squilibrata solo sui parametri del contenimento o della messa a profitto della sofferenza per tornare a parlare di una salute che si tutela nel territorio assumendo come oggetto di cura non solo la malattia ma anche le determinanti sociali (casa, lavoro, qualità dell’ambiente, cultura) che la condizionano/influenzano. Rivisitare il sistema di welfare che preveda il passaggio da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, estremamente costose ed inefficaci, spesso disumane e divoratrici delle capacità e dei desideri delle persone, a modelli di welfare comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economie solidali finalizzati a tutelare e promuovere libertà delle persone e benessere economico e collettivo.
Tutto questo, chiaramente declinato a livello locale, deve entrare a pieno titolo anche nel dibattito che si è aperto in città sulle prossime elezioni amministrative. In questo il laboratorio aperto da “RiCOSTUITUENTE per Napoli” può essere il luogo ideale per costruire e proporre ad altri – partiti, sindacati, movimenti – tale prospettiva. Perché in quel percorso, già oggi si registra un meticciato tra competenze, culture, professionalità e approcci differenti che appaiono adeguati per costruire un’idea di città dove le politiche per i fragili non siano più considerate “politiche deboli perché rivolte ai soli deboli” ma come una delle priorità da cui partire per lo sviluppo dell’intera città. Nella consapevolezza, per dirla con Papa Francesco, che solo partendo dai margini e dalla tutela dei “resti” si può costruire una città giusta, produttrice di buona vita per tutte e tutti, primi o ultimi che siano.