Note sulla condizione dello spazio pubblico nel nostro paese e una riflessione su alcune prospettive d’azione per il prossimo futuro
Il disegno dello spazio urbano e la regolazione e dei comportamenti negli spazi alla luce di istanze igienico-sanitarie è un tema classico nella storia della città e dell’urbanistica ed evidentemente non può essere trattato oggi fuori da considerazioni che interessano le popolazioni, nel rapporto stretto che si pone tra malattia, percezione del rischio, stili di vita, condizioni economiche e sociali.
Tra le misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, una delle più rilevanti riguarda il divieto di frequentazione degli spazi pubblici aperti, a prescindere dalla loro natura, localizzazione e modalità di fruizione e uso. Dentro una relativa tendenza a omogeneizzare le misure nelle diverse nazioni (ad esempio con la chiusura di locali pubblici) questa è la misura meno condivisa. Ad esempio, in buona parte d’Europa e degli usa la frequentazione dei parchi (e delle campagne e dei boschi) allorché mantenendo le distanze e a piccoli gruppi non è stata vietata. Questa diversità di comportamento è probabilmente legata a due fattori che limitano altrove le preoccupazioni di contagio negli spazi aperti e in particolare in quelli verdi: da un lato, la presenza quantitativamente consistente di dotazione di spazi a verde pubblico nelle città e nei territori (parchi urbani, boschi e percorsi nelle campagne); dall’altro la tradizione di differenti culture del corpo e della prossimità nelle forme di socialità e relazione. Ciò non toglie che questo divieto ha un effetto particolarmente pesante sulla qualità della vita e anche sulle condizioni di salute psico-fisica di tutti, ma in particolare per quelle fasce di popolazione più fragili (per età, risorse economiche e culturali, situazioni abitative legate alle dimensioni dell’alloggio, alla presenza o meno di un giardino o di uno spazio aperto di pertinenza).
Se dovesse riproporsi una seconda ondata di infezioni nell’autunno-inverno 2020 e 2021 e questa misura dovesse essere riproposta nella sua integralità, avrebbe senso mantenerla, tanto più si evidenziasse, come sembra emergere, che il contagio sia avvenuto massimamente in spazi chiusi (strutture sanitarie, residenze collettive, luoghi di lavoro e nuclei famigliari)? Soprattutto e principalmente, l’evento Covid-19, può portare qualche ripensamento nella progettazione e gestione degli spazi aperti collettivi? Queste brevi note intendono sollevare due questioni relative alla condizione dello spazio pubblico nel nostro paese e una riflessione su alcune prospettive d’azione per il prossimo futuro.
Diverse Italie
Relativamente al primo punto ci limitiamo ad osservare che viviamo in un paese dalle situazioni territoriali eterogenee e articolate, in cui si incrocia una pluralità di situazioni insediative, di densità dell’urbanizzato ed ecologico-ambientali: grandi aree metropolitane sovente congestionate, città medie, piccoli e piccolissimi centri di provincia, urbanizzazioni diffuse caratterizzate da basse densità abitative e da case sparse, eccetera. In una condizione di emergenza eventualmente riemergenti con comportamenti di distanziazione sociale e di igiene oramai condivisi (mantenimento della distanza ed eventualmente uso delle mascherine) è il caso di distinguere alcuni tipi di spazi pubblici e condizioni di contesto.
È evidente che nei piccoli e piccolissimi centri e in alcune condizioni insediative relativamente isolate tali misure non abbiano senso (e ha del ridicolo l’azione di sorveglianza e repressione attuata in questi giorni su sentieri di montagna e su alcune spiagge). Parimenti, anche nell’urbanizzazione diffusa a bassa densità con case isolate su lotto il livello minimo di socialità e di reciproco buon vicinato – e di aiuto – non possono essere gestiti tra i balconi, ma solo con una qualche mobilità pedonale nello spazio stradale tra le abitazioni (invero assai meno rischiosa che nell’ascensore condominiale). Non solo è probabile che piccoli e medi centri dotati di spazi pubblici aperti e dilatati (si pensi alle cittadine adiacenti a un parco regionale caratterizzato essenzialmente dalla sua natura boschiva con una fitta rete di percorsi, o ad urbanizzazioni costiere a medio-bassa densità affacciate su spiagge poco o nulla frequentate nei mesi non estivi) possano, durante una fase acuta che potrebbe tornare, regolare diversamente le pratiche d’uso dello spazio aperto rispetto a grandi e medie città particolarmente dense e con spazi pubblici urbani di tutt’altra natura. Insomma vi sono molte buone ragioni per ritenere che una simile misura, qualora debba essere reintrodotta in condizioni di rinnovata emergenza, possa riguardare in modo differenziale territori, tipi di insediamento e famiglie di spazi.
Spazi aperti pubblici non specializzati e a bassa intensità d’uso
Questo evento potrebbe spingere a ripensare forme e ruoli dello spazio pubblico, rivedendo investimenti finanziari e progettuali su alcuni tipi di spazi pubblici rispetto ad altri. Negli ultimi anni la progettazione e il successo dello spazio aperto collettivo è stato strettamente legato al loro essere spazi ad alta frequentazione, con elevata densità di attività commerciali e di eventi, se non al loro essere dei veri e propri “iper-luoghi” (nel senso di Michel Lussault). Ciò vale soprattutto nei contesti metropolitani e urbani – ma anche in piccoli paesi e in contesti agro-naturali in cui le pratiche di vita, le preferenze dei consumatori e gli investimenti pubblici hanno premiato luoghi ad alta frequentazione – sul cammino verso Compostela, nel circuito attorno al Monte Bianco, sulla ciclabile del Danubio, i luoghi della movida sui litorali salentini, ecc. E vale evidentemente ancor di più per lo spazio dell’intrattenimento e del commercio – si pensi alla priorità assegnata allo spazio commerciale indoor in moltissime città e metropoli. D’altra parte non è fuori luogo sottolineare come gli investimenti e il fare progettuale sugli spazi aperti pubblici sia stato non di rado nell’ultimo trentennio parte integrante di processi di gentrification e di valorizzazione immobiliare di alcuni brani di città e territorio.
La domanda che s’impone è allora la seguente. C’è spazio per un ritorno di attenzione agli spazi e alle strutture collettive diffuse e di prossimità e a quei luoghi pubblici che possono essere facilmente frequentati mantenendo una bassa intensità d’uso e per una più vasta gamma di soggetti sociali? Possiamo immaginare che tale ritorno di attenzione, che necessariamente deve appoggiarsi su linee di finanziamento e riforme normative che necessariamente si svolgeranno nel tempo lungo, possano rafforzare azioni di eguaglianza socio-spaziale e di promozione di condizioni diffuse di salubrità? Possiamo ipotizzare di innescare alcune “anteprime” sperimentali e a basso costo, temporaneamente in deroga ad alcune norme, legate alla fase di progressiva “ripartenza” che ci attende?
Dentro lo spazio fisico. Alcune prospettive per l’azione
Entro questa prospettiva, ci sembrano emergere almeno due campi d’azione. Il primo sullo spazio stradale di prossimità, che meriterebbe una rinnovata attenzione e un adeguato investimento teso a una sua diffusa qualificazione e de-specializzazione, secondo modelli molteplici. Dalla strada con marciapiede ampio, alla strada condivisa a precedenza ciclabile e pedonale sul modello del woonerf olandese: entrambe le soluzioni opportunamente alberate con attenzione agli effetti microclimatici, e cruciali per sostenere – con contenuti investimenti – la domanda di mobilità che plausibilmente si genererà nella “Fase 2”, come i promotori della RME/rete di Mobilità d’Emergenza hanno bene mostrato. Un ripensamento che dovrebbe intercettare e integrarsi nel medio-lungo periodo con una riflessione sulla localizzazione e accessibilità di alcune strutture commerciali di prossimità (pur nel quadro dello sviluppo dell’e-commerce) e di servizio (educativo e sanitario in primis).
Il secondo campo di azione riguarda gli spazi che possiamo definire genericamente “verdi” e con elevati livelli di naturalità. Alla concentrazione degli investimenti su alcuni luoghi notevoli (dove si è concentrato molto e troppo del fare dell’architettura del paesaggio), dovrebbe contrapporsi quella su più diffuse rete di percorsi e su ambiti di possibile forestazione. Nella porosità di molte periferie metropolitane con la loro ricca geografia di spazi aperti e/o residui, nelle vicinali di molte campagne intercluse o adiacenti ad aree urbanizzate in forma diramata e diffusa, a ridosso degli spazi fluviali di molti territori, talvolta persino nelle linee di costa e di spiaggia meno saturate dall’urbanizzazione costiera, ci sono spazi e percorsi che già assolvono un ruolo ricreativo e che potrebbero vedere crescere la rilevanza in una fase post-pandemica per la possibilità che offrono di svolgere attività fisica e di recuperare il contatto con la natura, rispettando le misure di distanziamento interpersonale. È però necessario pensare a come promuovere un’azione di riconnessione (facilitando l’acquisizione di alcuni percorsi di alcuni elementi lineari oggi impossibilitata da una farraginose procedure espropriative, che ne consentono l’attivazione solo per grandi opere e da parte di strutture tecniche complesse), e di riqualificazione minimale (con la sistemazione necessaria ora del fondo di alcuni percorsi, ora di alcuni elementi vegetazionali), attivando forme di cura e di custodia che coinvolgano i cittadini (come è stato per i sentieri CAI in montagna).
A tutto ciò, forse, – ma su questo torneremo in altra sede e in dialogo con altre competenze – potrebbe aggiungersi una questione relativa all’articolazione dello spazio non solo di taluni sevizi alla persona, ma anche di alcune strutture scolastiche e sanitarie. Più in generale, questa emergenza potrebbe dare la possibilità di prestare più attenzione ai criteri di combinazione e composizione nei diversi insediamenti del nostro paese di quelle strutture dell’economia fondamentale, al disegno spaziale del capitale quotidiano, giustamente rimesso al centro della nostra attenzione da non pochi ricercatori sociali.
Certo desideriamo e speriamo di poter presto tornare tutti a vivere lo spazio pubblico come luogo denso di eventi e di soggetti, spazio di incontro e di contaminazione sociale. Tuttavia l’epidemia può essere l’occasione per riflettere sull’importanza (anche) di una famiglia di spazi che si collocano in mezzo tra spazi pubblici ad alta frequentazione di matrice storica o di nuova realizzazione e le abitazioni private che solo in taluni contesti geografici e/o per alcuni soggetti sociali potranno felicemente accogliere momenti di relazione all’aperto tra piccoli gruppi. Si tratta di una famiglia di spazi particolarmente abbandonata e degradata nel nostro paese, sulla quale potremmo e dovremmo forse tornare a investire. Anche per questa ragione non può che sorprendere in negativo l’assenza di qualsiasi competenza su questi temi nel gruppo di lavoro governativo sulla cosiddetta “fase 2”. Non si tratta soltanto di capire come e con quali interventi far ripartire da subito le imprese, ma anche la nostra vita all’aperto e in condizioni di interazione e prossimità differenziate a seconda delle condizioni di rischio che potranno riproporsi.