La relazione introduttiva di Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze Diversità) a “Tutta un’altra storia. Gli anni 20 del 2000”, tre giorni di riflessione del Partito Democratico A Bologna, 15-17 novembre 2019.
Un’Italia giusta e solidale.
Perché la storia va in una direzione opposta. E come invertire le cose.*
Siamo qui, provenienti da storie e luoghi diversi, perché questa volta ci ha convinto il vostro metodo. Ricercare un ponte con competenze ed esperienze che in questi anni hanno continuato a pensare che esista un’alternativa, un’altra storia. Vi siete posti in ascolto – come lo siamo noi, gli uni con gli altri – perché avvertite la contraddizione fra un potenziale di idee e pratiche che potrebbero dare vita all’alternativa e l’assoluta incapacità di tradurre queste idee e pratiche in un cambiamento di sistema. Col risultato che la storia sta scappando via, verso un dirupo. Se questo è il senso dell’invito, il mio compito è chiaro: condividere con assoluta franchezza la diagnosi e le suggestioni strategiche nate proprio grazie a “un ponte”. Quelle che abbiamo costruito con il Forum Disuguaglianze e Diversità, un’alleanza fra otto organizzazioni di cittadinanza attiva di cultura diversa, e fra queste e il mondo della ricerca. E’ un pezzo del disegno strategico che serve. Prendetelo come uno sprone radicale al metodo che oggi praticheremo.
Giustizia sociale. E’ questa la missione che ha fatto incontrare noi del Forum. Fra le specificazioni possibili, abbiamo scelto il “pieno sviluppo della persona umana”, l’obiettivo su cui la Costituzione impegna l’intera Repubblica, precisando che include “la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”. E’ quella “capacità di ciascuno di fare le cose alle quali assegna valore”, che Amartya Sen ha definito “libertà sostanziale”, tale da “non compromettere la possibilità delle future generazioni di avere la stessa o più libertà”. Essere uguali, allora, non vuol dire vivere la stessa vita degli altri. Vuol dire piuttosto poter decidere quanto non essere uguali, come realizzare la propria diversità. Proprio la mortificazione sistematica di questa capacità da parte delle classi dirigenti ha segnato in modo crescente l’ultimo quarantennio, provocando la rabbia e il risentimento dei ceti deboli e subalterni; di ultimi, penultimi e vulnerabili, come diciamo noi del Forum.
Nell’improvviso e tardivo gran parlare di “disuguaglianza” da parte di cultura egemone e partiti, si sente l’ansia per questa rabbia e questo risentimento e per gli effetti che tutto ciò potrebbe avere per la crescita e la democrazia. Ma è assente il riferimento alla giustizia sociale. Si parte male. Non sorprenda allora la carenza della diagnosi, la natura frammentaria delle soluzioni, il fatto che esse non parlino ai ceti deboli. Ci vuole ben altro per cambiare il corso che gli eventi hanno preso. A cominciare da una consapevolezza della pluralità di dimensioni di vita a cui si riferisce il nostro istintivo senso di giustizia.
Certo, è giusto muovere dal reddito. Mentre nel mondo le disuguaglianze di reddito si riducevano, per l’emergere tumultuoso dalla povertà di centinaia di milioni di esseri umani in Asia, mentre peggiorava ancora la condizione dei più poveri della terra, in Italia, come in tutto l’Occidente, dagli anni ’80 la disuguaglianza di reddito cessava la discesa iniziata sessanta anni prima. E tornava anzi a crescere. Ma anche solo sul piano delle disuguaglianze economiche c’è molto altro, e ben prima della crisi del 2008. L’aumento della povertà. Il fortissimo aumento della disuguaglianza di ricchezza, con i 5mila adulti più ricchi d’Italia che passano dal 2 al 7% della ricchezza nazionale. L’irrigidimento della mobilità sociale. L’arresto della riduzione delle disuguaglianze fra regioni e la sua risalita, segnata da forti migrazioni interne ed esterne. E dietro tutto questo, la divaricazione fra buoni lavori – sempre meno – e cattivi lavori – in forte crescita. Lavori segnati da instabilità, vulnerabilità, una protezione e un’autonomia scarse o nulle. Lavori precari. Lavori presentati come un dono anziché un diritto. Con forme tali di sfruttamento da configurare talvolta una vera e propria schiavitù. Tutte forme di subalternità che tornano ad aggravare la condizione femminile.
Negli stessi anni si andavano aggravando anche i divari nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, fra aree interne e aree urbane, fra centri e periferie e fra città. E’ un fenomeno che tocca tutti gli ambiti della vita umana: dall’istruzione alla cura della salute – un paradosso, visto che l’Italia rappresenta in media un’eccellenza internazionale -; dalla mobilità alle comunicazioni; dall’abitare all’intero welfare. E poi c’è la disuguaglianza di riconoscimento: il riconoscimento, da parte delle classi dirigenti e del pubblico dibattito, della tua dignità, delle tue abilità, delle tue capacità di contribuire alle comunità a cui appartieni. L’assenza di riconoscimento ha progressivamente toccato molteplici fasce sociali della nostra società: abitanti delle aree rurali, insegnanti, operai, commercianti minori. Le classi dirigenti si sono occupate, a tratti, degli interessi di breve termine di queste fasce sociali, non più del loro ruolo culturale e politico: un atteggiamento fonte di mortificazione.
Ma perché è avvenuto tutto questo? Per convincere e muovere all’azione non bastano i fatti. Serve uno schema concettuale con cui interpretarli e narrarli – lo sa bene la destra. Serve una diagnosi, per capire come cambiare rotta. Come costruire un’altra storia.
A guidarci alla risposta, che, di nuovo, abbraccia l’intero Occidente, è Anthony Atkinson. “Le disuguaglianze sono una scelta”, scrive secco. Sono il frutto della svolta a 180 gradi che cultura politica e politiche, di ogni parte, compiono a cavallo fra anni ’70 e ’80. Della subalternità culturale diffusa, anche della sinistra, alla forma mentis neoliberale. Certo che la globalizzazione e la tecnologia digitale hanno scosso il sistema. L’una ha ampliato in misura straordinaria l’offerta di lavoro. L’altra ha avviato una nuova stagione di sostituzione di capitale (materiale e immateriale) a lavoro e una trasformazione non ancora definibile delle relazioni umane. Ma anziché tentare di indirizzare questi processi, l’azione pubblica e collettiva si ritraggono.
Il cumulo delle scelte compiute contro gli interessi di ceti deboli e subalterni fa impressione se è scorso d’un fiato.
Prima di tutto, viene il sistematico indebolimento del potere del lavoro organizzato. Proprio quando i fenomeni appena richiamati avrebbero richiesto di spronare e aiutare i sindacati a investire nelle competenze necessarie per rappresentare il nuovo lavoro precario, per costruire forme nuove di internazionalismo (almeno in Europa), e più tardi per negoziare automazione e algoritmi, si scatena la gara al loro indebolimento. L’alibi della società liquida viene utilizzato per annunciare che il conflitto capitale-lavoro è roba del ‘900. In Italia, anche i partiti che confluiranno nel Partito Democratico e poi il Partito Democratico ne sono responsabili. Né meno danni fa nel nostro paese la tarda strada neo-corporativa, quella che coinvolge il sindacato nel governo del paese. L’attacco mette il sindacato sulla difensiva e su una linea conservatrice, che ne frena innovazione e rinnovamento.
E poi c’è l’inversione di marcia di tutte le politiche. L’Italia segue in affanno e con le sue peculiarità il nuovo credo.
Cambia nel giro di pochi anni il taglio delle politiche macroeconomiche che avevano segnato il dopoguerra. Vengono accantonati gli obiettivi della piena occupazione e di contrasto del ciclo economico. Sono progressivamente indebolite le politiche di regolazione dei mercati e di tutela della concorrenza, prendendo in contropiede il nostro paese che a queste politiche stava arrivando con gran ritardo. A livello internazionale, la liberalizzazione del commercio è accompagnata da due alterazioni dei rapporti di potere gravidi di conseguenze: primo, nel 1994 (accordo TRIPs), viene esasperata la protezione della proprietà intellettuale rispetto al principio del libero accesso alla conoscenza; e poi vengono completamente liberalizzati i movimenti di capitale, spostando potere da chi controlla lo Stato a chi controlla i capitali in una misura tale da essere insostenibile per la democrazia. Nel frattempo, lo Stato rinunzia progressivamente a disegnare e attuare missioni strategiche. Rinunzia al governo delle piattaforme digitali. Ignora a lungo il tema della sovranità privata sui dati collettivi e personali. Affida sempre più il governo del territorio alle decisioni delle imprese private, con un rovesciamento del potere di iniziativa. Privatizza massicciamente le imprese pubbliche.
L’effetto di queste scelte sul cambiamento tecnologico e sulle sue ricadute è possente e dà luogo a un paradosso. La tecnologia dell’informazione ha infatti in sé il potenziale per ampliare l’accesso alla conoscenza, per facilitare relazioni e soluzioni cooperative a cavallo di classi sociali e luoghi, per produrre buoni posti di lavoro, per migliorare le condizioni di vita nelle aree marginalizzate. Insomma ha il potenziale per accrescere la giustizia sociale. E invece sta accadendo il contrario. La tecnologia dell’informazione apre una biforcazione, e noi stiamo prendendo la strada sbagliata.
L’indebolimento dei sindacati e la svolta nelle politiche impediscono di indirizzare il cambiamento tecnologico e producono uno straordinario processo di concentrazione della conoscenza, del potere e della ricchezza. All’uso incontrollato dei nostri dati, collettivi e personali, si accompagna quello dei dispositivi digitali e segnatamente degli algoritmi di apprendimento automatico. Si tratta di un mezzo capace di accrescere la giustizia sociale in tutti i campi della vita umana. Ma, in assenza di un suo governo collettivo o pubblico, la ripetibilità e scalabilità delle correlazioni che ne sono l’essenza, l’apparente oggettività delle decisioni che suggerisce, la sua natura di scatola nera si prestano all’uso opposto. E’ quanto avviene nelle selezioni o nel controllo discriminatori sul lavoro, nella fissazione di prezzi monopolistici sul mercato, nel ridisegno perverso dei prodotti assicurativi, nella disumanizzazione dei rapporti di cura, nella selezione oscura dei messaggi politici o di pubblicità rivolti a tutti noi.
E non basta. Negli stessi anni, proprio mentre sul piano formale cresce, in Italia e in tutto l’Occidente, il grado di decentramento della governance pubblica, con un nuovo ruolo di Regioni e Comuni, le politiche di settore per tutti i servizi fondamentali e le riforme istituzionali sono segnate da un’intenzionale “cecità ai luoghi”: one size fits all. Accantonando i migliori insegnamenti del pensiero liberale, si assume di potere riassumere opzioni e obiettivi per scuole, mobilità, salute in parametri e dispositivi tecnici uguali per tutti i contesti, rinunziando a utilizzare la conoscenza dei cittadini, la discrezionalità degli amministratori e, specie in Italia, gli esiti dei processi di apprendimento sul campo. L’azione pubblica viene segmentata in silos settoriali. Il processo decisionale si irrigidisce. Viene anche da qui la penalizzazione dei contesti “anormali”, prima di tutto di quelli delle aree rurali e interne, dove oggi è massima la rabbia. Per compensare le disuguaglianze e gli effetti sociali di questa e delle altre politiche si compie il passo finale, un passo che mortifica e marginalizza ulteriormente i territori e che trasforma molte classi dirigenti locali in rentier: l’elargizione di sussidi pubblici al di fuori di ogni strategia, a favore di pseudo-formatori, a imprese irrecuperabili, a infrastrutture che non verranno mai completate o resteranno inutilizzate.
A sostenere e spronare tutto questo, è un profondo cambiamento del “senso comune”. Lo cattura il significato nuovo di parole e concetti base dell’agire collettivo. Bastino alcuni esempi: ciò che è pubblico, è peggiore di ciò che è privato; il merito, è provato dal patrimonio accumulato; obiettivo unico dell’impresa, è massimizzare il valore corrente degli azionisti; povertà, è una colpa o una forma di furbizia sociale; libertà, è lasciare un ospedale, una scuola, un quartiere, una città quando non funziona. Si pensi solo a quanto quest’ultimo frutto dell’ideologia neoliberale sia lontano dal principio costituzionale, per cui libertà è la possibilità di impegnarsi affinché siano rimossi gli ostacoli al funzionamento di quelle comuni ricchezze. Voce, non solo exit, direbbe Albert Hirschman.
Per sfruttare meglio questa diagnosi è utile avanzare un’ipotesi sulle ragioni di questa sistemica inversione di marcia, politica e culturale. Essa matura quando il modello “socialdemocratico” (nella definizione amplia di Tony Judt) è al culmine. Pesa l’eccessivo affidamento sui meccanismi re-distributivi. Pesa la contemporanea disattenzione alla formazione della ricchezza. Ma soprattutto, il modello non riesce ad evolvere di fronte agli effetti del proprio successo: le nuove aspirazioni liberate proprio dalla soddisfazione dei bisogni essenziali. Persona, diversità, donna, genere, partecipazione, ecosistema: sono le istanze del tumultuoso e variegato movimento che chiamiamo ’68 che restano senza risposta.
I partiti di massa dell’Occidente non si adeguano nella lettura della società, nei valori, nell’organizzazione interna. La loro crisi, tuttora in atto, verrà imputata alla modifica del contesto. Di nuovo, tecnologia e globalizzazione sono i candidati preferiti. Secondo la tesi prevalente, essi avrebbero concorso a produrre la frammentazione sociale e la liquidità delle identità e dei valori che impediscono la funzione di “rappresentanza” dei partiti. Ma non pensate, invece, che la sequenza causale sia opposta? Che, come sempre nella storia, la “rappresentazione” di una società sia opera dei rappresentanti, non un dato oggettivo? Se una persona in difficoltà o in discesa sociale viene convinta dal “senso comune” che la propria condizione non dipende da processi generali, ma interamente dalla propria responsabilità individuale, non pensate che questa persona rinunzierà a cercare alleanze o soluzioni collettive e concorrerà così alla frammentazione sociale? E poi, persino questa è una mezza verità. Infatti, i famosi soggetti “non rappresentabili”, dispersi socialmente e territorialmente, esprimono una domanda di aggregazione, che usa luoghi nuovi, come scoprono continuamente le organizzazioni di cittadinanza attiva e come ha scoperto il sindacato quando si è impegnato a cercarli.
Anche in Italia la chiusura culturale dei partiti di massa di fronte alle istanze del ’68 dà il là decisivo alla loro involuzione. Con l’alibi della “società liquida”, si accantonano i “valori” e si concede vittoria al credo neoliberale: “there is no alternative”. La cultura politica dei partiti, schiacciandosi sullo Stato e sulla “responsabilità” di governarlo e difenderlo, e sacrificando la “rappresentanza” e l’impegno militante interno (come ci racconta Piero Ignazi), diviene cieca alle “casematte” di emancipazione sociale costruite con fatica nel tempo: le imprese pubbliche, il mutualismo del movimento cooperativo, la formazione delle 150 ore, la pratica delle inchieste partecipate, la liberazione dei diritti individuali che aveva condotto alla legge Basaglia-Orsini, alla normativa sui minori, alla considerazione della fragilità come parte dei processi inclusivi del welfare territoriale. Il Partito democratico erediterà e spesso sublimerà questa tara.
L’allontanamento dalla società si manifesta anche nell’atteggiamento di fronte a uno dei tratti nuovi e forti della società italiana, a cui non a caso oggi voi vi rivolgete con un metodo apprezzato: le organizzazioni di cittadinanza attiva, ossia le aggregazioni di persone che compiono “azioni collettive volte a mettere in opera diritti, prendersi cura di beni comuni o sostenere soggetti in condizioni di debolezza attraverso l’esercizio di poteri e responsabilità nelle politiche pubbliche”, come le definisce Giovanni Moro. Sono aggregazioni in cui si riversa la parte forse più interessante dello spirito del ’68. Quella che non prende strade individualiste, nel sistema o contro il sistema. Quella che sta lavorando da tempo per costruire contesti di vita più coesi, sperimentando forme di partecipazione e collaborazione inedite e ricostruendo un senso di vita che stimola e orienta l’azione quotidiana delle persone intorno a un progetto comune di benessere. Quella che, nell’accoglienza dei migranti, mostra con pratiche concrete che i diritti di chi è accolto si possono legare con i diritti di chi accoglie. Ma per la cultura politica egemone questa forza, anziché come una fonte di democrazia, viene prevalentemente concepita come uno strumento del meccanismo unico in costruzione: uno strumento per esternalizzare servizi standardizzati a imprese che possono sottopagare il lavoro e ricevere ordini. E’ l’anticamera sistematica e fisiologica della patologia esplosa a Roma.
Che si condivida o no questa lettura, certo è che in Italia l’inversione di marcia assume tratti esasperati. Almeno tre sono le aggravanti. Prima di tutto, l’arcaicità e la cultura amministrativista dello Stato italiano: la congenita priorità delle procedure sui risultati, il sistematico scoraggiamento della discrezionalità degli amministratori, lo squilibrio nelle competenze disponibili e reclutate, la resistenza a costruire processi di valutazione e apprendimento. Pesa, poi, la dimensione storicamente insufficiente dei sistemi di cura della persona, affidati in misura dominante alla famiglia e segnatamente alle donne. Il terzo fattore è legato al forte peso del sistema delle piccole e medie imprese. Attenzione, si tratta di una forza propulsiva del paese, espressione di spiriti imprenditoriali e creativi diffusi e luogo di sperimentazione di sistemi moderni di rete e di competizione-cooperazione. Ma la concentrazione del controllo sulla conoscenza prende in contropiede questo sistema, che nella fase precedente, quella delle macchine a controllo numerico, aveva potuto acquisire le innovazioni perché erano incorporate nelle macchine. Ora non è più così. Il sistema tedesco, simile al nostro per peso delle PMI, si adegua, costruendo un’organizzazione, la Fraunhofer. Non noi.
Se questa è la diagnosi, come sorprendersi della rabbia che percorre il paese? Certo che esistono luoghi, e questa Regione ne offre molti esempi, da Bologna a Castelnovo ne’ Monti, dove le disuguaglianze sono contrastate con tangibili successi, dove il disegno sociale e istituzionale tiene, dove l’attivismo, sociale, pubblico o privato che sia, segna progressi nell’usare le nuove tecnologie a fini di giustizia sociale. Ci vorrebbe altro che non fosse così. E tutto ciò sia di spinta a mobilitarsi a difesa di questi luoghi nella competizione elettorale dei prossimi 70 giorni, senza tregua. Ma queste esperienze – è la premessa di queste tre giornate – non fanno sistema. E dunque la rabbia e il risentimento di tanti non trova un progetto di società nuova in cui avere fiducia e per cui tradurre la rabbia in impegno civile e in conflitto. Trova invece chi raccoglie le loro paure e cerca di trasformarle in odio. Rifiuto della diversità, aspirazione all’omogeneità all’interno di comunità chiuse (locali o nazionali); avversione o disprezzo per le elites politiche e gli “esperti”; domanda di autorità che sanzionino i “comportamenti devianti”. E’ quella che Karen Sennert chiamò già nel 2005 dinamica autoritaria. E’ il segno della destra autoritaria in tutto l’Occidente. E’ una dinamica particolarmente forte nelle aree marginalizzate. Prima di tutto nelle aree rurali interne, i cui residenti avvertono, in Italia come altrove, la disattenzione sistematica di classi dirigenti urbano-centriche e metro-file.
Se questa è la diagnosi, diventa anche chiaro in quale direzione andare, come costruire i tratti, a un tempo visionari e concreti, di quel progetto di società nuova che oggi manca. Bisogna rimettere al centro l’obiettivo della giustizia sociale, di cui è parte la giustizia ambientale. Bisogna convincersi e convincere che questo obiettivo è, a un tempo, giusto e fondamento per lo sviluppo. Bisogna declinarlo in obiettivi vicini alla vita e alle aspirazioni trascurate in questi anni, e farlo attraverso un processo profondamente partecipato. E bisogna poi perseguire questi obiettivi, intervenendo con un rovesciamento delle politiche e del senso comune che redistribuisca potere, dentro i processi di formazione della ricchezza, privata e comune, e dentro i grandi campi dell’istruzione, della cultura e del welfare.
Nei prossimi mesi, vedremo se i ponti che già oggi proveremo a costruire e altri ponti che l’urgenza del momento spinge a immaginare potranno aiutare a delineare un disegno strategico. Ora posso condividere con voi alcune forti suggestioni tratte da 15 azioni pubbliche e collettive che mirano a fermare e invertire il processo di concentrazione della ricchezza, privata e comune. E’ il disegno che noi del Forum abbiamo sviluppato lavorando assieme ad altri 100 ricercatori e che ora stiamo “mettendo a terra” assieme a 20 Alleati in tutto il paese.
La disuguaglianza di ricchezza di oggi è la madre delle disuguaglianze di opportunità di domani. Per questo bisogna partire anche da qui. L’assenza di ricchezza privata, infatti, riduce la capacità di reagire a eventi imprevisti, di rifiutare cattivi lavori, di proteggere il risparmio; impedisce alle persone di mettere a frutto l’istruzione e le capacità imprenditoriali; riduce il rendimento del capitale; peggiora le possibilità di istruzione e assistenza sanitaria; impedisce alle persone di prendersi cura della ricchezza comune, dell’ambiente circostante, dei luoghi di socializzazione. Così come il degrado della ricchezza comune, oltre a mortificare direttamente la qualità della vita e a tagliare le gambe alle nostre nipoti e pronipoti, deprime il valore delle abitazioni e dunque della ricchezza privata.
Il disegno strategico affronta tre processi di formazione della ricchezza: il cambiamento tecnologico; il rapporto di potere fra chi controlla solo il proprio lavoro e chi controlla anche il capitale; la transizione generazionale. La capacità di riprendere il governo di questi tre processi è decisiva non solo per dare un colpo profondo alle disuguaglianze, ma anche per la tenuta della democrazia. Ve ne dò alcuni esempi.
Sul fronte del cambiamento tecnologico, l’obiettivo è chiaro: ridurre la concentrazione della conoscenza e del potere decisionale. C’è un fronte internazionale che va giocato sfruttando e amplificando, con alleanze coraggiose, la nuova consapevolezza a livello Europeo, affinché non si traduca nella tinteggiatura rosso-verde delle cose di sempre. Potreste ad esempio prendere la bandiera della creazione di imprese pubbliche europee nei campi della salute e delle prospettive demografiche, della tecnologia digitale, della transizione energetica, partendo dalla rete di 1000 infrastrutture pubbliche europee di ricerca. Questi veri e propri hub tecnologici consentirebbero di attuare missioni strategiche europee in termini di sviluppo e di giustizia sociale e ambientale, superando il paradosso per cui oggi la ricerca pubblica prodotta da quelle infrastrutture viene appropriata privatamente e pagata così due volte da ognuno di noi. Potreste mettervi all’avanguardia dell’uso collettivo del Regolamento per la protezione dei dati e per il governo dell’intelligenza artificiale. Ad esempio cominciando dalle città, dove, sul modello di Barcellona o Amsterdam, si può dar vita a piattaforme collettive per l’organizzazione dei servizi di mobilità e di altri servizi in cui i dati e il loro impiego siano controllati e dibattuti dai cittadini, anziché essere patrimonio privato.
Lo spazio per l’iniziativa nazionale è altrettanto amplio. Potreste lanciare in tutto il paese una campagna per l’uso degli appalti come volano di innovazione sociale e manifestazione delle preferenze collettive, abbandonando la sciagurata prassi del massimo ribasso. Potreste adoperarvi da domani per costruire la cornice istituzionale e di contenuto per assegnare missioni strategiche di lungo periodo alle nostre imprese pubbliche, una prassi irresponsabilmente abbandonata. Nel potenziamento delle Università come agente di giustizia sociale, potreste dare impulso alla scelta – sulla quale abbiamo trovato rispondenza nel governo – di eliminare l’attuale perversa distorsione nella valutazione dell’impatto sociale (la cosiddetta III missione) che incentiva la privatizzazione della conoscenza; e di promuovere la valorizzazione della ricerca nelle aree marginalizzate (periferie, aree interne, campagne deindustrializzate, e altre ancora). In queste aree va realizzato un più generale salto di qualità dell’intervento pubblico: dalla logica vetusta dei bandi di progetto occorre passare alle strategie di area costruite in modo partecipato, che disegnino servizi a misura dei contesti, diano capacità alle persone, rimuovano gli ostacoli alla creatività e all’imprenditorialità. E’ una strada che destabilizza le filiere di potere e mette in partita i ceti deboli. L’opposizione dei rentier locali e degli apparati burocratici alla Strategia nazionale per le aree interne, oggi praticata da 72 aree-progetto nel 17% del territorio nazionale, con particolare successo in questa regione, ne è una prova. A chi in questo governo ha preso in mano questa bandiera andrà data tutta la forza politica che sapete esprimere.
E poi c’è la condizione per cui tutto il resto si possa fare: un bagno di ragione e di sentimento per le pubbliche amministrazioni.
Non si può mancare l’occasione irripetibile del rinnovamento naturale del personale (500mila assunzioni in meno di cinque anni), che è già in atto ma senza alcun indirizzo strategico. Gli obiettivi di giustizia sociale offrono una missione strategica fortemente motivante e consentono di stabilire le competenze da reclutare, assai diverse dal passato. Una volta che le nuove leve siano state reclutate, esse vanno curate, evitando che siano trangugiate nella macchina delle procedure, e costruendo una relazione con quella parte della “vecchia guardia” pronta ad un’ultima gloriosa stagione. E a vecchi e giovani va ridato il gusto e l’incentivo per la discrezionalità delle decisioni, oggi represso dalla logica perversa dei sistemi di controllo. Si può fare.
Nel frattempo, nell’impresa va riequilibrato il potere del lavoro rispetto a chi controlla il capitale. Prima di tutto, va tutelata la dignità del lavoro, per i lavoratori stabili e per la massa del lavoro precario, con tre mosse simultanee: efficacia erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali “rappresentative”; soglia minima legale per il salario orario di ogni lavoratrice e lavoratore; rafforzamento e unificazione delle capacità ispettive. Sono punti che credevamo avrebbero rappresentato le prime urgenti mosse del governo in carica. Ma non basta. E’ urgente realizzare quella partecipazione strategica dei lavoratori, quella correzione nel governo dell’impresa, di cui si parla da tempo. Noi proponiamo che in ogni medio-grande impresa o distretto produttivo si dia vita a un Consiglio del Lavoro e della Cittadinanza che riunifichi e dia voce nell’impresa ai portatori dei diritti del lavoro, stabile e precario, della salute e della qualità ambientale. Assieme. Il Consiglio avrebbe, a seconda dei temi, poteri di informazione, di consultazione e contro-proposta o di co-gestione. Nascerebbe così un centro di competenza capace di elaborare soluzioni attraverso il confronto e di pesare sulle strategie aziendali. Perché non si giochi più, come a Taranto, sulla contrapposizione fra giustizia sociale e ambientale.
Tutti questi interventi darebbero opportunità alle giovani generazioni, alle ragazze e ragazzi di Fridays for Future, alle loro sorelle e fratelli maggiori, alle giovani e giovani “sardine” di Piazza Maggiore, qui a Bologna. Ma non basta ancora. La crisi generazionale ha assunto in Italia una forma talmente estrema da richiedere anche una scossa mirata.
E’ sempre più facile prevedere lo status socio-economico dei figli guardando a quello dei genitori. Il peso quantitativo dei giovani sul corpo sociale continua a scendere e con esso il loro potere, mentre cresce la loro ansia solitaria. Sulle loro scelte e opportunità di vita pesa in modo determinante, sin dall’adolescenza, la disponibilità o l’assenza di una ricchezza familiare futura a cui affidarsi. Troppo forte, oggi, la differenza di prospettive fra una quattordicenne che sa di poter contare a 18 anni sui mezzi necessari per mettere a frutto il proprio sapere e una ragazza che sa di non poterci contare e sa anche che dovrà accettare ogni lavoro pur di “portare a casa” un reddito di sopravvivenza. E’ una situazione aggravata da una tassazione delle eredità che di fatto nega il principio costituzionale della progressività, colpendo anche chi riceve poco, e troppo poco chi riceve moltissimo. Sia chiaro, non c’è nulla di male nel beneficiare della fortuna dei genitori o avi, ma non c’è neppure alcuna base di merito o virtuosità da tutelare.
Nasce qui la proposta di rafforzare la protezione collettiva dei giovani, di dare loro assieme un’opportunità e una responsabilità, di liberare la loro energia innovatrice. In due mosse. Prima mossa: trasferire a ogni ragazza o ragazzo, al compimento dei 18 anni, un’eredità pari a 15mila euro: un trasferimento universale, perché, per una volta, tutte e tutti siano sullo stesso piano, e per accrescere la libertà di ogni giovane dalle pressioni famigliari; non condizionato, perché mira a responsabilizzare e perché ogni condizione appare discutibile; accompagnata da un servizio abilitante, offerto attraverso la scuola e l’intera comunità sin dalla più giovane età, per riequilibrare le differenze di capacità nella futura decisione di impiego dell’eredità. Seconda mossa: finanziare questa “eredità universale” in larga misura con una riforma dell’imposta sulle eredità e le donazioni ricevute, che esenti due terzi delle persone oggi annualmente soggette all’imposta e renda significativa e progressiva l’imposta sugli altri, al livello di molti altri paesi industriali.
Questo è il nostro contributo operativo al disegno strategico che manca. Oltre a offrire materiale per critiche, integrazioni, sperimentazioni e varianti, che il Forum sarà felice di raccogliere, suggerisce sei considerazioni conclusive di natura più generale con cui voglio chiudere. Sei requisiti che credo necessari per costruire un’Italia più giusta.
Primo. Muoversi a un tempo su tre fronti. Rafforzare la redistribuzione dei redditi e della ricchezza. Mettere al centro del sistema del welfare la cura e l’empowerment di tutte le persone coinvolte. E assieme, redistribuire potere nei processi di formazione del reddito e della ricchezza, ossia pre-distribuire. Perché è il solo modo di cambiare davvero. Perché è la precondizione di uno sviluppo sostenibile. Perché in un contesto che fa saltare le gerarchie si può accelerare la marcia di emancipazione delle donne.
Secondo. Essere radicali. Ossia, spingere fino ai limiti possibili gli spazi (ampi) offerti dal capitalismo, agendo sia nel contesto nazionale e territoriale, sia sui paletti fissati dal contesto esterno. Che significa ricercare a livello internazionale l’alleanza con movimenti e leader radicali, non con ciò che resta della stagione neo-liberale. Perché è il solo modo di cambiare davvero. Perché solo così “ti sentono”.
Terzo. Essere pronti ad alleanze miopi. Una volta che hai una visione e una strategia radicali, puoi e devi permetterti una dose di miopia, ci ricorda l’Amartya Sen della “teoria della scelta”. Ti serve per trovare l’intersezione con altre visioni e raccogliere così forze adeguate ad avviare il cambiamento. Ci si dividerà dopo. In particolare, oggi, chi si batte per l’emancipazione sociale può trovare alleanze con il nuovo radicalismo del pensiero liberale, pur non condividendone la visione. Perché le libertà classiche del pensiero liberale, indipendenza personale e non interferenza, sono messe a repentaglio dalla concentrazione del controllo su conoscenza e ricchezza. E perché anche l’efficienza economica del capitalismo è minacciata.
Quarto. Concepire le azioni per la giustizia ambientale come parte della strategia per la giustizia sociale. Perché così stanno le cose, se la giustizia sociale è correttamente definita come “sostenibile”. Perché la minaccia ambientale è tanto più grande quanto più sei disuguale. Ma anche perché le misure urgenti per la transizione ambientale possono camminare solo se favoriscono subito, prima di ogni altro, gli ultimi, i penultimi e i vulnerabili.
Quinto. Riprendersi la modernità e non temere di riprendersi anche strumenti del ‘900. Perché l’innovazione tecnologica è sempre stata l’ingrediente fondamentale di ogni processo di emancipazione e può esserlo anche ora. Perché l’essenza del capitalismo non è cambiata e – come mostrano la nostra diagnosi e le nostre proposte – abbiamo gettato via strumenti del ‘900 che ci servono ancora per addomesticarlo: l’accusa di “nostalgia” è solo rivelatrice del fatto che abbiamo colpito nel segno.
Sesto. Puntare assieme su politiche pubbliche e azioni collettive. Le politiche pubbliche non si limitino alle modifiche legislative o regolamentari del contesto istituzionale, ma curino soprattutto le modalità di attuazione delle istituzioni esistenti e investano nelle amministrazioni pubbliche che quelle politiche sono chiamate ad attuare. E non ci si fermi alle politiche. Servono, sono possibili, vanno favorite azioni collettive di sindacati, reti di lavoratori, organizzazioni di cittadinanza, comunità di innovatori, movimenti che redistribuiscano potere decisionale, producano innovazione, promuovano, pretendano e animino le politiche pubbliche.
La strada è lunga. E piena di avversari, non solo nella destra autoritaria, ma in chi ha creato le condizioni per la forza della destra: chi ha concentrato conoscenza e ricchezza nelle proprie mani; i rentier che vivono alla loro greppia; le classi dirigenti ciniche e rinunciatarie che ritengono tutto ciò immodificabile; chi pensa che si possa combattere la destra promettendo moderatismo e la replica degli ultimi trenta anni. Ma è anche piena di alleati. In tutti coloro a cui vi state rivolgendo, che nel sociale, nel pubblico e nel privato, hanno costruito le tessere di una possibile nuova società e sono pronti a battersi per essa anche a livello di sistema. Se da queste giornate ricaverete la pazienza e il tempo per affrontare la complessità e il convincimento che esistono le forze per osare un cambiamento radicale, potrete dare un contributo decisivo a costruire un’altra storia, per tutti noi.
Ora è davvero tutto. Grazie dell’opportunità.
* La Relazione è dedicata a Giuseppe Campos Venuti, Trae larghissima parte delle riflessioni dalle analisi svolte collegialmente dall’intero Forum Disuguaglianze e Diversità, in particolare nel Rapporto “15 Proposte per la Giustizia Sociale”, disponibile sul web e in corso di pubblicazione da parte de Il Mulino. Per alcune valutazioni, soprattutto quelle relative alla vicenda politico-culturale italiana post ’68, la responsabilità è dello scrivente.
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