Un’analisi di una manovra di bilancio che da un lato potrebbe produrre una lieve riduzione della disuguaglianza dei redditi disponibili equivalenti ma dall’altro molti altri costi superiori ai benefici stessi, come il peggioramento del welfare pubblico. La categorialità che contraddistingue molti interventi, inoltre, aumenta le iniquità orizzontali, distinguendo fra persone meritevoli e non meritevoli di aiuto. Elena Granaglia ne ha scritto su Il Fatto Quotidiano e parlato a Radio Popolare
Nella manovra di bilancio del governo le due misure principali concernono la decontribuzione per i lavoratori dipendenti e la struttura dell’Irpef. Per quanto riguarda la decontribuzione é prevista la proroga al 2024 della riduzione dei contributi sociali in essere nel 2023: – 7 punti per retribuzioni annue pari o inferiori a 25.000 euro e – 6 punti per retribuzioni tra 25.000 e 35.000 euro. Questo intervento ha un costo di circa 11 miliardi di euro.
A integrazione di queste disposizioni generali, le lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, possono fruire di un esonero del 100% della quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore fino al mese di compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile. L’agevolazione è, comunque, transitoria: dura fino al 2026. A ciò si aggiunge la possibilità, in via sperimentale, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, di estendere il sostegno alle lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo.
Fisco
E’ abolita la seconda aliquota Irpef (anche se solo per il 2024). Ci sarà un primo scaglione fino a 28.000 euro tassato al 23%; un secondo scaglione fino a 50.000 tassato al 35% e un terzo scaglione per redditi superiori tassato al 43% (in precedenza da 15.000 a 28.000 euro vi era uno scaglione tassato al 25%). Le detrazioni da lavoro dipendente salgono da 1.880 a 1.955 euro per i contribuenti con un reddito fino a 15.000 euro, innalzando di conseguenza fino a 8.500 euro (da 8.173 euro) la no-tax area, come avviene attualmente per i titolari di reddito da pensione. L’incremento della no tax area potrebbe comportare la perdita del bonus dei 100 euro per i lavoratori dipendenti a basso reddito (ex bonus Renzi) la cui fruizione è limitata ai contribuenti capienti (fuori dalla no tax area). La manovra inoltre istituisce un fondo per l’attuazione dal 2025 della delega fiscale ma i fondi sono indicati a valere per il 2025. A fronte di questi interventi vi è una riduzione contestuale delle agevolazioni (con eccezione di quelle per spese mediche) per chi ha un imponibile superiore a 50.000 euro. Il costo complessivo è 4,3 miliardi.
Altre misure residuali (per impatto, ma significative)
Sgravi fiscali ulterioriori (sempre limitati al 2024)
- proroga della riduzione al 5% (dal 10%) dell’imposta sostitutiva IRPEF e delle addizionali comunali e regionali sui redditi erogati sotto forma di premi di risultato per dipendenti con reddito da lavoro fino a 80.000 euro. L’agevolazione vale fino a 3000 euro al netto dei contributi previdenziali, innalzabili a 4000 qualora l’impresa preveda un coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro;
- sgravio dell’Ires per il costo di assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato (la deduzione del costo può essere maggiorata del 20% e del 30% per i lavoratori svantaggiati. Al contempo, è abolita, però, la possibilità di ricorrere all’Ace (incentivo per gli investimenti finanziati con capitale proprio);
- riduzione del canone Rai (0,4 miliardi);
- proroga ulteriore per l’applicazione della Plastic tax e della Sugar tax introdotte dalla legge di bilancio per il 2020.
Introduzione, sempre per un periodo limitato, di un trattamento integrativo speciale pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte per il lavoro notturno e festivo per i dipendenti privati di strutture turistico-alberghiere, con un reddito non superiore a 40.000 euro. Aumento, ancora una volta temporaneo e circoscritto, di 2.100 euro del bonus per per pagare le rette agli asili nido pubblici e privati. Dunque, il bonus sale a 3.600 euro. La misura è rivolta a nuclei con ISEE fino a 40.000 euro e già almeno un figlio di età inferiore ai 10 anni. L’Isee, a sua volta, è ridefinito: la ricchezza detenuta in prodotti finanziari di raccolta di risparmio con obbligo di rimborso assistito da garanzia statale (titoli di stato a breve e a medio orizzonte, buoni postali e libretti postali) fuorisce dall’Isee fino a un massimo di 50.000 euro. In conclusione, la manovra aumenta l’indebitamento netto (+ 3,2 miliardi nel 2023 e + 15,7 nel 2024) per andare a finanziare misure esclusivamente temporanee e prevalentemente di sostegno al reddito attraverso una riduzione della pressione tributaria.
Alcune valutazioni
Secondo le stime di Banca d’Italia (Brandolini, 2023) dalla manovra “quasi tre famiglie su quattro ne trarrebbero benefici; gli altri nuclei non subirebbero variazioni significative di reddito. Le famiglie tra il secondo e il sesto decimo della distribuzione del reddito disponibile equivalente beneficerebbero degli aumenti di reddito più cospicui (fino al 2,3 per cento). Gli incrementi sarebbero più contenuti nei decimi di reddito più alti della distribuzione. Il risultato è una lieve riduzione della disuguaglianza dei redditi disponibili equivalenti (l’indice di Gini diminuirebbe di 0,3)”. Non bisogna farsi abbagliare da questo possibile esito positivo per chi è interessato alla riduzione delle disuguaglianze. E non solo perché noi vogliamo di più (e ci potrebbero dire, con le poche risorse disponibili non si poteva fare altro), ma perché la lieve riduzione nella disuguaglianza dei redditi disponibili equivalenti si associa a molti altri costi, che potrebbero essere superiori ai benefici stessi. Detto in altri termini, questa non è una manovra che fa poco. È una manovra che fa male.
- La fissazione nei confronti dell’obiettivo della riduzione del “pizzo” di Stato implica, inevitabilmente, un peggioramento del welfare pubblico, con diverse conseguenze negative in termini di:
- potere d’acquisto delle famiglie. Con una mano si lascia qualche soldo in più nelle tasche delle persone (peraltro temporaneamente), con le altre se ne riduce il potere d’acquisto non investendo sui servizi;
- struttura del welfare, di fatto favorendo/rendendo inevitabile un’espansione delle già ben diffuse tendenze alla privatizzazione (favorita anche dalla conferma degli ulteriori sgravi al welfare fiscale);
- delegittimazione della tassazione e del welfare pubblico, funzioni basilari per la giustizia sociale e ambientale.
Da sottolineare in negativo anche l’incremento dell’’Iva su alcuni prodotti per l’infanzia e per le donne che, peraltro, riduce il potere d’acquisto di due insiemi di soggetti che la riduzione fiscale dovrebbe beneficiare e l’incremento dell’imposizione sul lavoro dei carcerati.
Certo, la sanità ha 3 miliardi in più, ma questa cifra non deve farci dimenticare che nel 2022 la spesa pubblica pro-capite in Italia era 2.208 euro (mentre era 5.086 euro in Germania e 3.916 euro in Francia). Le nuove risorse sono destinate al rinnovo dei contratti, all’incentivazione delle erogazioni aggiuntive, all’incremento delle risorse per acquisire servizi privati. Per i prossimi anni, la previsione è di un progressivo abbattimento dell’incidenza sul PIL (mentre, come è noto, sono stati ridimensionati gli obiettivi del Capitolo Sanità del PNRR e sono elevati i rischi di disavanzi pregressi derivanti dall’eredità del Covid e dall’andamento dei prezzi dell’energia). Non un euro è messo sulla non auto-sufficienza, mentre sono diminute le risorse per i Ministeri (tagli lineari) e per gli Enti locali. E questi sono solo alcuni esempi.
- L’intervento a favore del lavoro notturno e festivo è un segnale ulteriore del disinteresse a migliorare la distribuzione delle retribuzioni di mercato (in barba all’art. 36 a sostegno di una retribuzione dignitosa) così proseguendo nel sentiero segnato dal decreto lavoro e dalla legge di stabilità dell’anno precedente: detassazione mance, reintroduzione buoni lavoro, ecc.
- La categorialità che contraddistingue molti interventi aumenta le iniquità orizzontali, distinguendo fra persone meritevoli e non meritevoli di aiuto. Ad esempio consideriamo gli interventi di decontribuzione per le donne. Certo, l’equità di genere richiede interventi ad hoc. Ma, appunto, gli interventi differenziati vanno costruiti dentro una visione universalistica di uguaglianza di opportunità. Nella legge di bilancio, viene dato, peraltro in via transitoria, un po’ di più alle donne ma solo se lavoratrici e mamme di almeno tre figli (in via sperimentale due), ma solo se con contratto di lavoro a tempo indeterminato (e a esclusione lavoro domestico). Ma perché il tipo di contratto rende bisognoso? Inoltre, quale è la ratio? Certamente non sostenere nuova occupazione (data la transitorietà della misura). Certamente, non sostenere il costo dei figli (semmai si dovrebbe aumentare l’assegno unico e universale). Contrastare l’uscita dal mercato del lavoro? Sappiamo che già al primo figlio le donne in Italia lasciano il lavoro, e dunque, abbiamo iniquità orizzontali anche fra le donne con figli. Forse l’unica ragione è usare fondi pubblici per fare vedere di fare qualcosa. Similmente, perché destinare il bonus asili nido solo a chi ha già un figlio di almeno dieci anni?
Le iniquità orizzontali aggiungono motivo di preoccupazione anche nei confronti di altre misure già criticate per altre ragioni. L’incremento della detassazione del welfare aziendale, oltre a cozzare con l’idea di welfare universale, è fonte di iniquità orizzontale nella ripartizione del carico tributario, agevolando solo i lavoratori dipendenti che abbiano welfare aziendale. L’integrazione per il lavoro notturno e festivo aiuta solo chi lavora nel turismo non altri lavoratori poveri. Certo, la categoralità e le iniquità orizzontali sono un tratto già presente nel nostro fisco e nel nostro welfare, ma, non è questa una buona ragione per proseguire.
- E, ultimo punto, fare fuoriuscire dall’Isee la ricchezza detenuta in titoli di stato, buoni postali e libretti postali, significa che, a parità di Isee, le situazioni economiche potrebbero essere molto diverse.
In termini più generali, prosegue la strada verso l’idea di una società che si arrangia da sola, lasciando del tutto inalterate le disuguaglianze economiche e di potere, dando qualche contentino, peraltro transitorio e risicato, neppure a coloro che stanno peggio, ma solo a coloro che se lo meritano. A latere una riflessione più generale sulla decontribuzione, misura seguita anche dai governi precedenti. Nel 1995 abbiamo varato una riforma delle pensioni contributiva: i contributi dei lavoratori, pure in costanza di regime a ripartizione, vanno ai lavoratori come pensione. Detto in altri termini, le pensioni continuano a essere finanziate dai contributi correnti (i contributi versati non vengono capitalizzati), ma quanto paghiamo è di fatto nostro. Certo, come in ogni sistema assicurativo, esiste una redistribuzione a favore dai buoni ai cattivi rischi. L’idea, tuttavia, è che a fronte del pagamento dei contributi si riceva un beneficio. Se si continua a chiedere e praticare decontribuzioni generalizzate vuol dire che l’assetto pensionistico vigente è insostenibile. Ma allora non dovremmo pensare a riformarlo, piuttosto che a impegnare ogni anno decine di miliardi?