Colpevolizzare chi è in difficoltà è pericoloso perché nasconde le vere cause della disuguaglianza e non può che scatenare rabbia, paura e risentimento. E’ solo riconoscendo le persone, anche le più fragili, come diversi ma degni di rispetto che si può promuovere il riconoscimento sociale di tutti gli individui.
Intervista a Gabriella Turnaturi*
Professoressa Turnaturi, è d’accordo con la lettura del Forum, che indica nelle disuguaglianze di riconoscimento una delle cause dei sentimenti diffusi di rabbia, paura e risentimento?
Certamente. Le disuguaglianze comportano non solo grandi deprivazioni materiali nella vita quotidiana ma sono forme di deprivazione di rispetto e riconoscimento. Una grande fetta della popolazione, non solo italiana ma anche mondiale, è come se non esistesse. Non ci sono né una vera democrazia deliberativa né forme di partecipazione collettiva. Le disuguaglianze oggi sono poi così forti e ancora più punitive perché si colpevolizzano coloro che non fanno parte dell’élite economiche, politiche e dello spettacolo. Le persone diventano colpevoli di non avercela fatta, di non avere successo, di non avere soldi e di non trovare lavoro perché non si impegnano adeguatamente. Si assiste a una colpevolizzazione dell’individuo rispetto alle cause sociali della disuguaglianza che è molto pericolosa. Questo provoca da una parte il nascondere le pratiche e i meccanismi che portano alle disuguaglianze sociali, e dall’altra non può che scatenare sentimenti di depressione, rabbia e paura, che si manifestano con atti che io classifico come richieste di riconoscimento, un voler dire con forza “io esisto”, per contrastare il fatto di essere misconosciuti e irrilevanti per le scelte politiche ed economiche.
Lei che studia le emozioni e i linguaggi attraverso cui sono socialmente rappresentate, poiché le emozioni, non sono esclusivamente personali, ma si inscrivono in una sensibilità condivisa e collettiva. Il sociologo Richard Sennett, con cui lei ha lavorato a lungo e di cui ha curato il volume “Rispetto”, si concentra su come tenere insieme uguaglianza e diversità e su come le interazioni sociali possano promuovere il riconoscimento delle persone. Che risposta propone Sennett?
E’ molto interessante il suo approccio perché pur non trascurando il ruolo che possono avere le politiche pubbliche e le Istituzioni nel promuovere e incoraggiare forme di riconoscimento, anche se lui parla più di rispetto, si differenzia dall’idea di Habermas per cui il riconoscimento è quello normativo che viene calato dall’alto e si differenzia anche da quello di Honneth, poichè pensa che ciò che vada sviluppato e favorito sono quelle forme di interazione tra estranei, tra persone che non hanno tra di loro relazioni di vicinanza, di comunanza, di parentela ma che imparano a stare insieme nello spazio pubblico, a rispettarsi e a riconoscersi socialmente in quanto appartenenti e in quanto condividono quello spazio e una forma collettiva e comune del convivere, riconoscendo al tempo stesso le diversità. Difatti – sostiene Sennett, è facile riconoscere socialmente quello che è uguale a noi. Pensi ad esempio alle corporazioni. Quello che è più difficile è riconoscere la stessa dignità e lo stesso diritto al rispetto anche verso coloro che sono diversi da noi socialmente, culturalmente, nazionalmente e così via. Il rispetto e il riconoscimento sociale dunque si devono fondare innanzitutto sul rispetto delle differenze e delle diversità. In questo senso, a me piace molto Sennett perché pur avendo una concezione molto forte dell’importanza della convivenza è lontano anni luce da quello che ahimè si sta affermando e che è il trionfo dell’approccio verso l’altro di tipo emozionale e caritatevole. Il riconoscimento e il rispetto di cui parla Sennett non hanno nulla a che fare né con l’empatia né con la simpatia.
Come si possono promuovere forme di riconoscimento sociale tra persone?
Sono scarse le possibilità di promuovere un riconoscimento dall’alto. Secondo Sennett rispetto e riconoscimento sono frutti innanzitutto relazionali. Non riguardano dunque i rapporti di parentela, di consanguineità o quelli comunitari. Già dalla prima pubblicazione, “Il declino dell’uomo pubblico” rifletteva sul fatto che ciò che è importante è l’esposizione all’altro diverso da noi, la capacità di stare urbanamente tra estranei. Lì c’è una forma di apprendimento di rispetto e di riconoscimento che è dovuto al fatto di condividere lo stesso spazio e di un quadro di riferimento comune che non è normativo nel senso della dicotomia norma/punizione-trasgressione, bensì è un avere presente un quadro di riferimento di pensieri e sentire comuni, di quello che io chiamo cultura emozionale. A questo proposito, all’inizio del volume “Rispetto” lui scrive: “Nella società le partiture musicali sono le leggi, i riti, i codici delle credenze religiose, le dottrine politiche, e quando i soggetti le interpretano bene, “suonano” strumenti sociali condivisi, possono entrare in contatto anche con chi è loro estraneo, mettere in atto rispetto e reciprocità. Proprio come i musicisti che s’impegnano per raggiungere un’esecuzione eccellente indipendentemente dai loro rapporti personali. “Il carattere” può dunque essere considerato il lato relazionale della personalità, la sua capacità di rapportarsi al mondo, superando l’idea che solo le relazioni faccia a faccia comportino coinvolgimento e sollecitino responsabilità.”
Lei ha dedicato quasi una trilogia ai sentimenti, in particolare alla vergogna, alla felicità e in ultimo all’amore. Inizierei dalla vergogna su cui lei ha scritto un libro nel 2012, dove definiva questo sentimento “la sentinella del legame sociale” e il più socialmente costruito dei sentimenti. Attribuisce dunque a questo sentimento una funzione pubblica, capace di svegliare le coscienze? E oggi in che fase siamo? Tra la rabbia e il risentimento c’è spazio anche per la vergogna o è un sentimento ormai demodè?
Sono cose un po’ diverse. La vergogna è costruita socialmente come tutte le emozioni che cambiano a seconda dei contesti geografici, sociali e storici. Dietro questo costruire socialmente ci sono le pratiche, i prodotti culturali che fanno sì che in una data fase storico-sociale ci si vergogni in certe situazioni e non in altre. Quando dico che è una sentinella del legame sociale, mi riferisco al fatto che ci sono società dove si è perso un sentire comune della vergogna, dove ogni gruppo sociale si vergogna rispetto a qualcosa, e non vale lo stesso per gli altri. Se penso alla vergogna contemporanea credo sia quella di non essere consumatori forti, di non avere abbastanza soldi, di essere poveri e inadeguati rispetto alla prestazione. Non sono stato abbastanza brillante, non ho fatto una bella figura, non sono adeguato fisicamente: sono vergogne legate all’apparire. Certo le persone molto umiliate possono sviluppare risentimento e rabbia che sentimenti individuali o gruppali: sperano in un capovolgimento della democrazia o in qualche persona salvifica che li riscatti. Pensiamo a Trump per fare un esempio. Ma nell’ultimo capitolo del libro, “Il buon uso della vergogna” io però vedevo un lato positivo di questo sentimento, capace di portate all’indignazione e all’azione collettiva.
Rispetto al rapporto tra felicità e riconoscimento possiamo dire che la prima ha una dimensione personale e contingente mentre il secondo invece apre marcatamente alla relazione e all’incontro e può avere una dimensione collettiva che spinga all’azione?
Non esiste nulla al di fuori della relazione nella società. C’è una bellissima definizione di Georg Simmel che dice “l’individuo è l’uomo intero, non il resto che rimane quando da questo si toglie ciò che condivide con gli altri”. Non esiste l’individuo da solo. E qua torniamo a Sennett che quando parla di rispetto e riconoscimento, crede che ci possa avere soltanto nell’interdipendenza, nel riconoscere che tutti abbiamo bisogno di tutti. E questo può aiutarci a eliminare lo spettro della dipendenza. Quando siamo caritatevoli verso l’altro in qualche modo lo facciamo sentire dipendente da noi, ma se invece questo rapporto diventa di interdipendenza, e tutti ci riconosciamo appartenenti a una collettività e tutti facciamo qualcosa perchè la sintonia venga fuori, allora c’è la consapevolezza dello stare facendo qualcosa insieme. Mi piace molto la nozione di “togetherness”, che usano sia Sennett che Ash Amin (Professore di Geografia a Cambridge, ndr).
Una domanda sulla politica come campo delle emozioni. Sembrano prevalere i sentimenti negativi, invece dei valori come solidarietà, uguaglianza, libertà, che essendo principi iscritti nella Costituzione dovrebbero regolare il nostro vivere insieme. Perché accade?
Perché quei valori non sono realizzati e le persone le cominciano a sentirli come parole vuote, mentre le paure e la sensazione di pericolo si basano sulla vita quotidiana. Dobbiamo pensare a ciò di cui fanno esperienza le persone tutti i giorni. Di trattamenti egualitari, di solidarietà? Oppure di sopraffazione, di violenza, di soprusi e di misconoscimento? E poi c’è un’altra cosa importante. Tutti si concentrano sulla paura, il risentimento, la rabbia. Invece non dimentichiamo che il linguaggio della politica, da Berlusconi in poi, si è impossessato di parole positive che vengono dal linguaggio emozionale e affettivo, per esempio “amore”, “il volersi bene”. Bush ad esempio parlava di “compassionate capitalism”. Invece il linguaggio della politica non può e non deve essere un linguaggio emozionale perché il rispetto sta anche in questo, nel non eliminare la distanza tra i cittadini e chi lo governa, se no torniamo al Medioevo mentre il mondo moderno nasce sull’estraneità.
Nel suo ultimo libro “Non resta che l’amore” lei scrive “pressati dal mito dell’efficienza, da una precarietà ormai stabilizzata, da una flessibilità senza tregua non dovrebbe meravigliare che gli italiani cerchino nell’amore gratificazione e riconoscimento”. Cosa ha scoperto scrivendo questo libro? Forse l’amore è un modo per comprenderle tutte le emozioni di cui abbiamo parlato finora?
Con questo libro io fatto una fotografia fenomenologica di ciò che esiste in questo momento. Non ho trovato l’amore, come sospettavo già all’inizio, ma l’aspirazione all’amore. Sempre di più le persone deprivate, misconosciute, trattate male, pensano che il rapporto amoroso sia un rifugio in un mondo senza cuore. E proprio per il fatto che si chiede a questo sentimento, alla relazione, gratificazione, riconoscimento sociale, rispetto, uguaglianza e cosi via, quando e se le cose vanno male esplodono furia, rabbia e risentimento. Basti vedere il numero degli omicidi sulle donne. Più gli uomini sono deprivati, più investono nel soggetto che loro credono più debole la loro fonte di soddisfazione, e se questa si sottrae e non li gratifica abbastanza le fanno fuori. L’amore diventa dunque uno spazio in cui confluiscono sentimenti che dovrebbero essere elaborati nella sfera pubblica.