Il decreto del 1° Maggio ha messo la parola fine sul Reddito di Cittadinanza per come lo conoscevamo. Neanche i dati sul suo concreto effetto di protezione contro la povertà sono stati sufficienti per evitare il suo smantellamento in una direzione peggiorativa rispetto a prima. Al tempo stesso l’esecutivo ha deciso di precarizzare ulteriormente il lavoro. Decisioni che allontano da un futuro di maggiore giustizia sociale
Con il decreto approvato il giorno della Festa dei Lavoratori è stato abolito il Reddito di Cittadinanza. Il nostro paese aveva atteso a lungo, rispetto agli altri paesi europei, una politica di sostegno al reddito delle persone in povertà e adesso questa non esiste più. Al suo posto sono state introdotte due misure che frammentano la platea delle persone in povertà in due categorie distinte: quella di coloro che vivono in famiglie con minori, over 60 anni, persone con disabilità e non autosufficienti (che riceveranno l’“Assegno di inclusione”), i non occupabili, e quella degli occupabili definiti così perché tra i 18 e i 59 anni, in assenza delle caratteristiche familiari viste prima, (che riceveranno il “Supporto per la formazione e il lavoro”). Questi ultimi hanno diritto a un sostegno minore a titolo di indennità di partecipazione a corsi di formazione e solo per la durata dei corsi suddetti, o comunque al massimo 12 mesi terminato il quale non potranno godere di nessun aiuto da parte dello Stato, anche se permarrà la loro condizione di povertà. Non c’è più traccia del principio di universalità che caratterizza le misure contro la povertà: un sostegno a chiunque viva in povertà e per tutto il tempo in cui persiste la condizione di bisogno.
Contemporaneamente, lo stesso giorno, il governo ha approvato una liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e l’estensione dei voucher in tutti quei settori dove il lavoro povero è già molto diffuso. Portati fino a 15 mila euro, in un paese dove circa il 30% dei dipendenti privati ha salari annuali inferiori a 12 mila euro lordi, di fatto rappresentano un importo competitivo con le basse retribuzioni, che, seppur basse, sono comunque associate alle protezioni standard del lavoro. Mentre i voucher, non le prevedono.
In Italia, dove il tasso di disoccupazione (persone che sono disposte a lavorare, a prescindere dagli scoraggiati) tocca il 22,3% tra i giovani, dove circa il 12% dei lavoratori è in condizioni di povertà (il fenomeno dei cosiddetti lavoratori poveri), e tre milioni sono poi i lavoratori irregolari, queste misure – quelle per la povertà e la maggiore precarizzazione – vanno in una direzione contraria rispetto alla creazione di maggiore giustizia sociale.
Ne abbiamo scritto su Avvenire e sulla Rivista Il Mulino. E in questa nota dove abbiamo tratteggiato quali sono i punti salienti per delle politiche contro la povertà giuste ed efficaci: una misura che abbia alla base l’universalismo e la cui unica priorità sia quella di proteggere chiunque sia in povertà. Una misura con obiettivi chiari e strumenti ben definiti, che non crei esclusioni, che venga adeguatamente comunicata, che sia semplice da ricevere per i cittadini e le cittadine che ne hanno diritto e da attuare per gli operatori e le operatrici sui territori che hanno in carico gran parte del peso della sua attuazione. Una misura di cui vengano periodicamente diffusi i dati sull’andamento e presentati rapporti di monitoraggio da parte delle istituzioni. Una misura che rappresenti una risposta forte alla povertà, che, lungi dall’essere una colpa individuale, è in primis un rischio sociale, come la disoccupazione, e attiene alle caratteristiche strutturali del contesto socio-economico.
Disegnare politiche non considerando il peso delle complessive condizioni economiche in cui ci troviamo rischia di condannare il paese a un destino di povertà, impoverimento e disuguaglianze crescenti. Andare nella direzione giusta e costruire soluzioni che invertano la rotta a questo punto non è un’utopia, ma una opzione a portata di mano. Si tratta “solo” di scegliere.