La crisi sanitaria che il paese sta attraversando ha fatto emergere alcuni limiti del nostro sistema di welfare. L’attenzione dei policy maker e della comunità scientifica si sta concentrando sulla necessità di far fronte alle esigenze della classe lavorativa dei freelance finora considerata marginale con strumenti nuovi. Il contributo vuole affrontare alcuni temi che sono venuti alla ribalta in queste settimane e tenta di fornire qualche suggerimento per iniziare a riflettere su un sistema universalistico di welfare che metta al centro il lavoro e le persone
In queste settimane il dibattito pubblico relativo agli interventi che riguardano il lavoro si è focalizzato sui sussidi ai lavoratori autonomi che il Governo ha approvato nel mese di marzo e che è in procinto di reiterare per il mese di aprile, forse con qualche accorgimento, con l’obiettivo di far fronte alla crisi derivante dall’epidemia di coronavirus che sta attraversando il nostro paese – e l’intera comunità internazionale.
Se per le tradizionali categorie di lavoratori i policy makers si sono ritrovati una cassetta degli attrezzi collaudata, per i lavoratori autonomi, siano essi titolari di partita IVA o collaboratori più o meno continuativi, lo strumentario a disposizione appare ancora carente e apertamente inadeguato. In generale, l’insieme delle politiche di welfare, comprese quelle che dovrebbero avere carattere di universalità, mostrano i propri limiti proprio quando ci si rivolge ai lavoratori autonomi. Gli strumenti di sostegno per la maternità (e la paternità), la malattia, gli infortuni, le assicurazioni sociali (ma anche quelle private), i servizi bancari, non sono pensati per una platea di persone che il mondo del lavoro vuole sempre più ampia, flessibile, resiliente.
Nei periodi di crisi, o come in questi giorni di vera e propria emergenza, queste persone si trovano – chi più chi meno – a dover riconsiderare non solo il proprio reddito, ma anche le proprie strategie di sopravvivenza personale e familiare, la priorità degli obiettivi e le azioni concrete da approntare. Ciò non dipende necessariamente dalla “precarietà” della condizione lavorativa o da fattori connaturati con la tipologia di lavoro o di contratto, ma dal fatto che nel processo di riforma del mondo del lavoro, a partire dalle riforme Treu in poi, non si sono approntati strumenti adeguati, condivisi, efficaci ed efficienti per venire incontro alle diverse situazioni di lavoro degli autonomi. Una platea di soggetti che a seconda della classificazione nel quadro delle statistiche INPS nel 2018 variava tra circa 750.000 a oltre 1.200.000 persone con un reddito medio di circa 20.000 euro all’anno. Da questi numeri sono esclusi gli artigiani e i commercianti categorie che spesso contengono al loro interno lavoratori che sono del tutto ascrivibili a professioni intellettuali e creative (designer, traduttori, artisti, lavoratori del mondo della cultura, ecc.)
Il risultato di questi giorni ci porta perciò ad assistere alla necessità di operare mediante dazioni “a pioggia” – che universali di fatto non sono e non possono essere – o provvedimenti che in qualche modo escludono questa tipologia di lavoratori (ad esempio la proroga delle scadenze fiscali di IVA e IRPEF produce effetti molto limitati su chi ha il regime forfettario – che già non deve versare tali imposte – mentre per questa categoria di autonomi sarebbe di grande sollievo il differimento del pagamento dei contributi INPS).
Viene quindi da chiedersi: quali sono gli strumenti esistenti che con opportuni adattamenti potrebbero in qualche modo far fronte alle diverse esigenze dei lavoratori autonomi; quali sono i criteri per discriminare l’accesso agli strumenti di sostegno in base alle differenti situazioni personali, patrimoniali e familiari; quali potrebbero essere degli strumenti nuovi che possano configurarsi come strutturali, adeguati anche a situazioni diverse da quelle legate all’attuale crisi sanitaria?
Se è vero che nell’emergenza, pretendere equità ed efficienza rimane ancora una chimera, è forse arrivato il momento di mettersi attorno ad un tavolo per affrontare il tema di come rendere universali, in modo sostenibile, gli strumenti esistenti trasformandoli, oppure come inventarne di nuovi in grado di assicurare una maggiore inclusività delle politiche di sostegno al reddito.
Facendo ancora un passo indietro dovremmo chiederci se gli istituti del lavoro (Contribuzione sociale, assicurativa, e più in generale il Welfare) non siano da considerarsi obsoleti nella loro organizzazione complessiva, proprio oggi che il mondo del lavoro è radicalmente diverso da quello nel quale questi istituti sono stati pensati e introdotti. Se si osservano le dinamiche del lavoro, non solo a livello nazionale, ci si accorge che il ricorso a lavoratori che non lavorano in maniera continuativa e con relazioni di dipendenza è, e probabilmente lo sarà sempre più nel prossimo futuro, una componente strategicamente rilevante anche se numericamente limitata.
Per ripensare un sistema di protezione sociale maggiormente equo dobbiamo quindi ripartire da questa considerazione e coraggiosamente rimettere in discussione alcuni principi che regolano oggi il mondo del lavoro partendo dalla natura della relazione di lavoro e ripensando a quali debbano essere i diritti uguali per tutti i lavoratori, quali diritti siano necessari solo per una categoria ed in funzione di quali parametri questi diritti debbano essere modulati.
Non basta infatti fare un ragionamento solo sul sostegno al reddito – che in questa fase di emergenza ha necessariamente catalizzato l’attenzione dei policy maker e degli studiosi – ma dobbiamo pensare all’intero sistema di welfare dall’istruzione e la formazione, alla salute, alle pensioni, all’assistenza. Dobbiamo anche ripensare l’organizzazione sociale dal sistema bancario e dalla burocrazia, dalle relazioni contrattuali agli indicatori statistici.
Ci permettiamo qui di riprendere alcuni spunti dei ragionamenti che già erano sul tavolo prima di questa crisi sanitaria. Innanzitutto, andrebbero recepiti i suggerimenti e le proposte che in questi ultimi tempi sono state formulate per intervenire a vari livelli a sostegno dei lavoratori indipendenti. In parte queste proposte sono state raccolte dal CNEL nell’ambito della Consulta del lavoro autonomo con la partecipazione di diverse associazioni di rappresentanza ipotizzando l’istituzione di un ammortizzatore sociale universale nonché interventi specifici per la formazione dei lavoratori autonomi.
Proponiamo di esaminare proposte che sono state formulate in altri paesi, pensiamo alla proposta francese di un contrat de activité, con l’intenzione di risolvere in parte il problema della “portabilità dei contributi”. Questa esigenza nasce dal fatto che molti lavoratori autonomi passano da esperienze lavorative con diversi regimi di retribuzione (lavoro salariato, diritti d’autore, collaborazione) nei quali i regimi di contribuzione variano per molte categorie professionali e può accadere che una persona operi in diversi settori economici, dal commercio all’industria, in periodi diversi della propria vita lavorativa ma anche della propria giornata lavorativa. Ciò comporta molto spesso che il soggetto non riesca a ricostruire la sua “carriera” di contribuente e ad utilizzare l’intero montante contributivo come calcolo per la pensione o di altri servizi di welfare (maternità/paternità, malattia, ecc.).
Si tratta in sostanza di ragionare su un sistema che metta al centro delle relazioni contrattuali i diritti acquisiti dal lavoratore indipendentemente dal suo ruolo di dipendenza o di autonomia, quella che chiamiamo “portabilità dei diritti”. Oggi chi cambia lavoro passando da una condizione di dipendenza ad una di autonomia perde gran parte dei diritti acquisiti in termini di malattia, maternità, ammortizzatori sociali, cosa che non avviene se ci si trova nella situazione inversa. Venendo al punto delle misure di sostegno al reddito riteniamo necessaria una elaborazione di pensiero che “voli alto” a partire dai principi universali, ma dovremmo anche considerare lo stato e l’elasticità della macchina organizzativa e finanziaria delle istituzioni deputate all’erogazione di ammortizzatori sociali.
L’INPS è oggi sottoposto a una pressione inimmaginabile con l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni e della Cassa Integrazione Guadagni in deroga, con l’introduzione di un reddito di cittadinanza e con l’erogazione di sostegni al reddito. Il rischio che la macchina burocratica non regga alla pressione e i tempi di pagamento non rispondano a bisogni certe volte impellenti è reale. Non dobbiamo ragionare solo in termini di emergenza ma dobbiamo vedere in questa sconvolgente esperienza l’opportunità di inserire nel nostro ordinamento misure che da tempo venivano invocate e che possono avere degli effetti strutturali.
Infine, non si può non considerare il contesto internazionale nel quale siamo intrinsecamente immersi. CI troviamo di fronte a sfide epocali che questa esperienza sta facendo emergere in modo incontrovertibile: il nuovo welfare dovrà tenere conto delle politiche ambientali e di contrasto ai cambiamenti climatici, dovrà tenere conto del settore creativo e culturale, dovrà fare i conti con la cooperazione internazionale nella ricerca scientifica e le politiche di coesione globale che mirino a diminuire le differenze tra paesi tradizionalmente ricchi e paesi più poveri, dovrà garantire un sistema di formazione di qualità aperta alle sfide planetarie, dovrà guardare ad un sistema sanitario inclusivo ed efficiente non perché questa emergenza ne ha rivelato le falle in termini di esclusione (pensiamo ai migranti che neppure hanno una casa, figuriamoci quelli che hanno contratto il virus e neanche ne sono consapevoli) ma perché lo slogan “nessuno resti indietro” non rimanga vuoto di contenuti e guardi alle persone a 360 gradi.
Sul piano della concretezza abbiamo il dovere di chiederci preliminarmente se sia possibile realizzare un sistema così articolato (assistenza, previdenziale, istruzione e formazione, salute, cultura, ecc.) per gli autonomi senza fare un ragionamento serio sulle istituzioni che dovranno concretamente realizzarlo. Prendiamo ad esempio l’INPS, istituto nel quale negli anni sono stati investiti oltre 360 milioni di euro per un sistema informatico rivelatosi clamorosamente inadeguato; non sarebbe necessario ripensare al suo modello organizzativo e gestionale? O addirittura creare un Istituto separato nel quale far confluire altre Casse e gestioni pensate per singoli gruppi professionali, dividendo il mondo del lavoro in due: salariato e non salariato, comprendendo nel secondo l’intero universo delle forme ibride.
Per quanto riguarda la contribuzione sarebbe forse opportuno includere strumenti di solidarietà trasversale tra lavoratori autonomi – appartenenti ad ordini professionali e non – e salariati. Questa ipotesi, che andrebbe sicuramente approfondita, potrebbe vedere la creazione di un fondo di solidarietà nazionale destinato a finanziare ammortizzatori sociali universali per tutte le categorie di lavoratori armonizzando ulteriormente le contribuzioni di ciascuna singola categoria di soggetti ed evitando di pesare sulle categorie che già hanno un livello di contribuzione ai limiti della sostenibilità.
Per quanto riguarda la politica fiscale l’equità la si costruisce anche con una profonda revisione dei regimi di vantaggio, armonizzandoli e mantenendo un livello di burocrazia accettabile (se non nulla) per chi ha livelli di reddito basso. Progettare un nuovo welfare per tutte quelle figure che non rientrano nel lavoro salariato con un minimo carattere di continuità non è cosa che si può fare in quattro e quattr’otto sotto l’incubo di una pandemia. Per questo diffidiamo delle misure di protezione decise in fretta, con l’acqua alla gola, che rischiano d’introdurre nel sistema storture e ingiustizie peggiori di quelle con cui abbiamo dovuto convivere in questi anni. Ci chiediamo fino a che punto un welfare calibrato sulla condizione del lavoro autonomo e dei gig workers possa essere immaginato all’interno del quadro esistente, pensato per il lavoro salariato stabile. Non sarebbe forse il momento d’insediare una Commissione speciale multidisciplinare, con una visione a lungo termine, incaricata di studiare un sistema di welfare per il lavoro indipendente, le forme ibride e la gig economy, anche sulla base delle nuove informazioni che l’emergenza sta offrendo, relativamente alla consistenza e alle caratteristiche di questa platea di beneficiari? In questo senso andrebbero eliminate distinzioni tra false e autentiche Partite IVA, tra lavoratori autonomi economicamente dipendenti e non, andrebbe soprattutto superata la definizione europea di lavoratore autonomo come impresa, che porta a delle situazioni aberranti come quella di considerare una coalizione sindacale come cartello incompatibile con la normativa antitrust.
Vent’anni fa i lavoratori autonomi venivano considerate le figure vincenti del post-fordismo e della globalizzazione, oggi vengono identificati con lo strato di popolazione a rischio di povertà. Una politica di sostegno al reddito d’emergenza rischia di istituzionalizzare questa condizione. Invece il lavoro autonomo va considerato come una risorsa per il futuro, un driver insostituibile per l’innovazione, la creatività, per la consistenza di “capitale immateriale” che è in grado d’immettere nel sistema. Non va considerato solo per la sua flessibilità perché questa viene immediatamente trasformata in sfruttamento. La miseria del lavoro autonomo nell’Italia di oggi è data dal non riconoscimento delle competenze da parte del mercato. Un paese che rivela a tal punto il disprezzo per la competenza e per il lavoro intellettuale è un paese destinato al declino.