In occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, pubblichiamo un estratto dal volume “NON E’ UN DESTINO. La violenza maschile contro le donne, oltre gli stereotipi”, Donzelli Editore, di Lella Palladino, sociologa femminista, tra le fondatrici della cooperativa E.V.A. e membro dell’Assemblea del ForumDD
Dall’introduzione
[…] Come un’orchestra polifonica che per produrre in sintonia ha bisogno di una direzione sapiente, anche il lavoro con le donne ha bisogno di una regia che conduca tutti gli elementi ad armonizzarsi nei tempi e nelle azioni. Nulla di più difficile, considerando che quando una donna chiede aiuto può farlo senza ancora aver maturato la decisione di denunciare il suo partner violento – che spesso è il marito e il padre dei propri figli –, che non sempre ha fiducia nelle istituzioni, che non ha riscontri dei danni causati al suo corpo e alla sua mente dalla violenza subita e al percorso evolutivo dei suoi figli per l’esposizione alla violenza. Intorno può avere il vuoto perché è stata isolata, nel suo mondo di relazioni interrotte c’è chi sa ed è stanco del suo silenzio che percepisce come complice o collusivo, chi non ha occhi per vedere quello che accade e lo sminuisce o considera normale, chi, tra i tanti e le tante che credono sempre di avere la verità in tasca, pensa che non sia una buona moglie, una madre protettiva, una donna in grado di tenere in piedi la coppia facendosi rispettare.
Se il contesto della violenza è il luogo di lavoro, è sempre lei in fondo che non sa porre le giuste distanze, che per ambizione non respinge con fermezza le avances del capo, che lascia spazio ai colleghi, che accetta cene di lavoro e trasferte. Se teatro delle molestie o anche di stupri è la strada, la discoteca, o qualsiasi altro spazio esterno, è sempre lei che se l’è cercata, si è esposta al pericolo, era vestita in modo provocante, ha bevuto troppo o fumato chi sa cosa, ha lasciato credere di essere disponibile.
Questo coro così intriso di pregiudizi è comune ahimè ancora a una larga parte degli operatori e delle operatrici dei servizi pubblici e del terzo settore che senza una competenza specifica, improvvisandosi esperti sul tema, intervengono in maniera inopportuna e colpevolizzante finendo per scoraggiare le donne e rallentare così i percorsi di uscita dalla violenza. Perché il coro possa mutare e in tanti possano imparare che per le donne è fondamentale essere credute, sostenute, rinforzate, sentirsi ripetere che i comportamenti di cui sono state vittime sono rubricati come reati, che la responsabilità è sempre di chi agisce violenza, che non sono loro sbagliate, inadeguate, incapaci, è indispensabile che tutti, all’unisono, assumano una diversa prospettiva. Riescano cioè ad adottare un’ottica femminista[1] riconoscendo la violenza come la manifestazione di rapporti di potere squilibrati tra i generi e come la modalità attraverso la quale gli uomini cercano di tenere ancora le donne in posizione subordinata.
E’ questa la direzione sapiente che può consentire all’intera orchestra di non produrre note stonate, ed è tale difficile compito che da decenni i centri antiviolenza faticosamente tentano di portare avanti nei territori in cui si trovano a lavorare. Per strutturare reti competenti è necessario investire tante energie, dedicare tanto tempo, munirsi di infinita pazienza e superare le frustrazioni che inevitabilmente si vivono. Capita spesso che, nonostante si sia lavorato a lungo, si siano proposte ripetutamente formazioni, si siano organizzati eventi e attività di diffusione culturale, si siano condivise esperienze e storie complesse, quelle per la cui soluzione si cresce tutti insieme, con le assistenti sociali dei Comuni, con gli operatori delle forze dell’ordine, con i medici di base e della medicina territoriale, con gli insegnanti delle scuole, con le altre associazioni, si sia comunque costrette a sentire la solita esternazione scomposta e stonata: «ma perché non lo ha lasciato prima?», «certo che pure lei però…», «ma che madre è?!, come ha potuto permettere che i figli vivessero in questo inferno?». è incredibile come più gravi siano state le violenze, più forti le umiliazioni e le offese, e più generalizzato si riveli il rimprovero per colei che tutto questo lo ha subito. Ancora lunga è la strada che porta a sconfiggere il pregiudizio e lo scontato capovolgimento di responsabilità che solo per la violenza contro le donne si riscontra. Mai per nessun reato scatta in automatico la giustificazione dell’autore, il sospetto del concorso di colpa da parte della vittima, l’introduzione delle attenuanti generiche e l’assoluzione completa a prescindere dalla tipologia del crimine commesso.
Accade anche in presenza dei femminicidi: è continua la polemica per i titoloni sui giornali che, ogni volta che un uomo uccide una donna con la quale è stato in relazione, inevitabilmente tentano improbabili spiegazioni del suo gesto con occhio benevolo e comprensivo. E’ successo anche quando insieme alla moglie qualcuno ha ucciso i suoi stessi figli. Nonostante decenni di nostro lavoro continua ad accadere. Accompagnare una donna fuori da una relazione violenta comporta quindi fare i conti insieme a lei con tutto questo, con quello che per sintesi definiamo la «vittimizzazione secondaria»[2], con i tempi dilatati della giustizia e la collusione culturale con il maschile che attraversa ancora il mondo dei servizi oltre che dei media.
Proprio per questo nel nostro agire come centri privati e indipendenti resta fondamentale relazionarsi con il sistema dei servizi pubblici ponendosi con la giusta assertività ma con l’obiettivo di contaminarlo con il nostro diverso sguardo e di trasformare così radicalmente il modo di affrontare il problema della violenza.
[…]
La costruzione dell’identità di genere è strettamente connessa a un sistema economico che, con le dovute differenze di contesto, di status e di classe, si fonda sulla più trasversale delle disuguaglianze e delle disparità, quella tra maschi e femmine. Si continua pertanto a proporre la presenza di ministre, cancelliere, presidenti di camere e di consigli d’amministrazione come la celebrazione di una parità ormai raggiunta mettendo in ombra un dato incontrovertibile: quanto il Pil dei nostri avanzati paesi occidentali si regga non solo sullo sfruttamento sistematico degli ultimi della terra, ma sulle infinite ore di lavoro non retribuite dedicate ai compiti di cura da parte delle donne. Per capire la dimensione strutturale del ruolo delle donne nel processo di riproduzione sociale, come suggerisce l’economista femminista Antonella Picchio, è utile analizzare non solo i dati su fertilità e fecondità, ma anche i dati sul lavoro non pagato svolto in ambito domestico. Queste indagini, promosse dagli istituti nazionali di statistica con cadenza regolare, rivelano un fatto clamoroso: a livello nazionale e internazionale tutto il lavoro di riproduzione non pagato (che comprende la manutenzione degli spazi e il lavoro relazionale di cura) è un po’ più di tutto il lavoro pagato. Si tratta di un dato macroeconomico fondamentale, quanto meno per dimensione, ma alla cui evidenza statistica non ha fatto seguito una riflessione economica e politica adeguata capace di spiegarne le funzioni, i legami strutturali e le forme di controllo. «senza questo sforzo analitico i dati sul lavoro non pagato sono solo un monumento alla capacità sacrificale delle donne che ne svolgono circa due terzi»[3]. Di fatto il dato sul lavoro non pagato a livello macroeconomico rimane occultato nonostante misuri una risorsa necessaria alla sostenibilità del sistema produttivo e quindi un costo di produzione. Costo che non viene riconosciuto nella distribuzione del reddito e resta scaricato sulle donne come dono forzato al benessere sociale. Se non sveliamo questo occultamento e le sue ragioni, non capiamo la radice profonda e strutturale della violenza contro le donne; ci sfugge, così, che nella «normalità» del lavoro domestico si trova una delle radici più profonde della disparità e delle disuguaglianze di genere e della violenza.
[1] La parola «femminista» si presta a molte interpretazioni ed è sempre opportuno declinarla al plurale, in questo caso adotto la definizione proposta da Eleonora Missana in Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista (Feltrinelli, Milano 2014): «Dovendo offrire una formulazione sintetica del termine, lo si potrebbe definire, molto in generale, come la contestazione dell’organizzazione sociale patriarcale e dell’ordine culturale e simbolico fondato sulla distinzione gerarchica e sul dominio del maschile sul femminile» (ibid., p. 9).
[2] Con questa espressione si intendono quel complesso di atti che espongono nuovamente la vittima di reato a una violenza molto spesso istituzionale e viziata dai pregiudizi legata alle modalità di condurre le audizioni, di raccogliere le testimonianze, in molti casi veri e propri interrogatori durante i quali si resta esposte agli attacchi della difesa della controparte, ai tempi lunghi dei procedimenti che non consentono di mettere fine a vicende molto dolorose, al rischio di essere sottoposte al vaglio della credibilità e delle competenze genitoriali.
[3] A. Picchio, Le vite di donne e uomini in un sistema economico strutturalmente irresponsabile e violento, in Ri-conoscere. La violenza maschile contro le donne ieri e oggi: analisi femministe a confronto, a cura di G. Pincelli ed E. Montorsi, «Quaderni di D.i.Re», Edizioni Settenove, Cagli 2017, p. 42
* Foto da Unsplash
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