Rendere l’accesso dei migranti nei paesi europei sempre più difficile ridurrà solo marginalmente gli arrivi ma condizionerà il profilo sociale dei migranti e il futuro dei loro figli.
Un contributo di Giuseppe Russo*
In buona parte del mondo, le politiche migratorie sono ormai l’unico argomento su cui si giocano davvero le elezioni. Il trionfo di Trump, la Brexit, i risultati elettorali in Italia, Austria e Svezia, il fiatone di Angela Merkel, la xenofobia dilagante nel gruppo di Visegrad, gli sbandamenti della Francia (dove l’astuto Macron inneggia ai solenni principi della Rivoluzione mentre schiera la polizia alle frontiere – e anche un po’ oltre) si possono tutti considerare conseguenze elettorali dell’immigrazione. E’ un dato di fatto: al minimo sospetto di “lassismo migratorio”, i governi vengono defenestrati a furor di popolo. Sotto i colpi delle migrazioni l’intera costruzione europea si va sbriciolando in un pulviscolo di nazionalismi e particolarismi, in una corsa alla sovranità ottenuta per disgregazione.
Qui non si vuole analizzare il perchè di questa situazione, ma gettare uno sguardo sulle sue conseguenze. Muri con il Messico, navi abbandonate nel Mediterraneo, campi profughi al collasso, revisione del diritto di asilo, annunciano inequivocabilmente un irrigidimento delle politiche migratorie (“la pacchia è finita”). Si noti che, a fronte di questo irrigidimento, le cause della pressione migratoria (conflitti, cambiamenti climatici, differenziali salariali, squilibri demografici) restano inalterate. La domanda diventa allora: come si trasformerà l’immigrazione? Cosa cambierà nel comportamento dei migranti?
Per prima cosa, emigrare diventerà molto più difficile e costoso: le rotte cambieranno, e i flussi si orienteranno ulteriormente verso la clandestinità. L’incremento dei controlli farà salire il prezzo degli accessi illegali e aumenterà gli introiti dei trafficanti. L’aumento dei prezzi e le barriere all’entrata ridurranno gli ingressi, determinando il successo almeno parziale delle politiche adottate.
Il pool di immigrati sarà composto da una minoranza di immigrati regolari – probabilmente istruiti e occupati- e da una maggioranza di irregolari, nascosti nell’economia sommersa per evitare le espulsioni. L’aumento dei costi e/o della difficoltà di emigrare cambierà inevitabilmente anche il comportamento di chi emigra, spingendolo a insediarsi nel paese dove è entrato. La mobilità “circolare” con il paese di origine diventerà infatti troppo costosa e troppo rischiosa. Questo effetto è poco noto, perché l’idea prevalente è che gli emigranti lascino il proprio paese una volta per tutte. In realtà, la dinamica migratoria è molto più complessa rispetto a questo schema elementare: gli individui, se liberi di spostarsi, tendono ad alternare soggiorni in patria e all’estero, a muoversi anche tra diverse destinazioni seguendo le opportunità di lavoro.
La decisione di insediarsi all’estero arriva spesso come conseguenza dell’integrazione economica e/o culturale. Questo meccanismo è compromesso quando la mobilità è compromessa. In tal caso, chi riesce a entrare (legalmente o illegalmente) in un paese tende a richiamare i familiari per insediarvisi al più presto. Questo comportamento amplia e consolida le comunità di immigrati, che possono facilmente ritardare l’integrazione degli entranti e delle seconde generazioni. Esistono diversi esempi in proposito. La fine del programma di mobilità tra Messico e Stati Uniti (1965) contribuì a trasformare un flusso circolare di lavoratori in una popolazione di immigrati permanenti. Il caso della Germania, che nel 1973 cercò di fermare l’immigrazione in seguito allo shock petrolifero (c.d. Anwerbestopp), è particolarmente istruttivo. Temendo il dilagare della disoccupazione tra gli immigrati, il governo tedesco bloccò i programmi di mobilità. Le restrizioni, che non si applicavano agli immigrati della Comunità Europea, determinarono un picco dei ricongiungimenti familiari di Turchi e Slavi, aumentando di fatto l’immigrazione da quei paesi. Gli immigrati italiani, non colpiti dall’Anwerbestopp, semplicemente rientrarono in Italia, dove attesero la ripresa economica prima di ripartire per la Germania. I ricongiungimenti familiari, invece, contribuirono a produrre una numerosa seconda generazione di immigrati. E’ significativo che, ad oggi, gli esponenti di quella generazione mostrino una minore integrazione culturale nonostante una soddisfacente integrazione economica.
In generale, studi recenti suggeriscono che spingere alla clandestinità le prime generazioni penalizzi fortemente le seconde generazioni. E’ verosimile quindi che nel prossimo futuro avremo meno immigrati, ma riuniti in comunità ancor meno integrate, impiegate nell’economia sommersa e meno inclini all’adattamento culturale. Le seconde generazioni saranno probabilmente poco istruite, avranno meno opportunità dei nativi e continueranno a lavorare nei segmenti marginali del mercato del lavoro occupati dai loro genitori. In generale, dunque, un po’ meno immigrati, ma –a parte i pochi regolari- più stanziali, più poveri, più marginalizzati e con minori prospettive.
Bibliografia essenziale
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