
La socialità e il ruolo insostituibile delle politiche urbane

La socialità, intesa come pratica di relazioni fra persone diverse dai propri familiari e dal gruppo ristretto dei propri amici, basate sulla pari considerazione e rispetto degli altri, nel riconoscimento non solo delle differenze individuali, ma anche della comune appartenenza ad una medesima umanità, appare sempre meno al centro delle politiche pubbliche. Si torni, ad esempio, al discorso sul welfare negli anni 50 e 60. La socialità era al cuore delle riflessioni dei padri dello stato sociale, da Marshall a Tawney e Tittmuss. Oggi, invece, l’attenzione per le dotazioni private di risorse è dominante, siano esse trasferimenti di reddito, nelle prospettive più compensative, o di servizi nelle prospettive del welfare attivante e del social investment state. La socialità certo non è scomparsa, ma continua a esistere prevalentemente di fuori delle politiche, nella società civile e con declinazioni che spesso risentono dell’appartenenza religiosa.
La disattenzione pubblica alla socialità ha contribuito a una società più povera di opportunità, meno coesa, incline alle chiusure nei confronti di chi è percepito diverso, più insicura, con più difficoltà di governo. La socialità è infatti sia opportunità di stare bene sia strumento di creazione di senso civico. Come tutti i valori, non si sviluppa, però, in un vacuum. Richiede politiche coerenti. Se neppure si riconosce l’importanza del valore, appare arduo che tali politiche si sviluppino.
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Menabò n. 119/2019
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