Non è l’effetto di cambiamenti fuori dal nostro controllo

Diverse sono le interpretazioni dell’aumento delle disuguaglianze nell’ultimo trentennio, specie dopo che Thomas Piketty (in Capital in the Twenty-First Century, 2014, Cambridge, MA: Harvard University Press), ha riportato opportunamente l’attenzione sulle disuguaglianze di ricchezza e sulle forze immanenti nel capitalismo che spingono verso un incremento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito e ha poi suggerito che la riduzione di disuguaglianze del precedente quarantennio sarebbe piuttosto l’eccezione, essendo in larga misura dovuta alla distruzione di ricchezza fisica e finanziaria connessa alle due grandi guerre mondiali. Tenendo conto del dibattito sollevato (cfr. in particolare H. Boushey, J. B. Delong, M. Steinbaum, After Piketty. The Agenda for Economics and Inequality, Harvard University Press, 2017) e fra gli altri  dei contributi di Anthony Atkinson (Inequality. What can be done?, 2015, Harvard University Press) e Branko Milanovic (Global Inequality. A new Approach for the Age of Globalization, The Belknap Press, 2016), i promotori del Forum ritengono che l’incremento delle diseguaglianze sia in larga misura dovuto a scelte politiche, culturali ed economiche: un’inversione a U delle politiche, una perdita di potere negoziale del lavoro, e un cambiamento del senso comune – “Inequality Turn”, la chiama Atkinson. Così come nel periodo fra il 1945 e la fine degli anni ’70, alla riduzione delle disuguaglianze interne ai paesi occidentali avevano concorso in modo determinante movimenti sociali e politici e politiche pubbliche intenzionali.

 

Questa interpretazione non nega affatto le spinte che sono venute durante l’ultimo trentennio da profondi cambiamenti: apertura e integrazione dei mercati; tecnologia dell’informazione, automazione e incertezza in merito alla domanda futura di competenze; aumento della massa degli asset finanziari per unità di prodotto; modifiche nelle preferenze dei consumatori; movimento verso le città; migrazioni da povertà, guerre e dittature; accelerazione di trasformazioni ambientali, talora non reversibili. Molti di questi cambiamenti sono spesso riassunti nel termine elusivo di “globalizzazione”. Essi hanno costituito una sfida per tutti, per il sistema delle imprese (cfr. per una ricognizione approfondita relativa all’Italia, Luca Paolazzi, Fabrizio Traù, I nuovi volti della globalizzazioneConfindustria, novembre 2016) come per i lavoratori e i consumatori. In Occidente, le nuove opportunità di decentrare la produzione (attraverso investimenti diretti o l’acquisto di beni intermedi) e il repentino aumento dell’offerta di lavoro – un “esercito di riserva” quasi illimitato in Cina e India – hanno ridotto la capacità di conciliare elevata competitività industriale e retribuzioni dignitose, riducendo il potere negoziale del lavoro, con un potenziale effetto negativo sulle disuguaglianze. Di fronte a questi cambiamenti, le persone con minori mezzi, finanziari, di potere, di conoscenza e di relazioni, non sono riuscite a reagire. Altri, che quei mezzi avevano, non solo si sono difesi, ma hanno cercato nei cambiamenti l’occasione per nuove iniziative.

 

Tutto questo è vero. Ma l’apertura di una forbice così ampia fra vulnerabili e resilienti e fra ultimi-penultimi e primi non era scritta. Non erano scritte le regole mondiali della globalizzazione e non era inevitabile (in democrazia) il modo in cui le classi dirigenti hanno affrontato i cambiamenti: anziché anticipare che l’aggiustamento dei sistemi produttivi avrebbe lacerato il tessuto sociale e richiesto un impegno straordinario per accrescere le opportunità dei più deboli a reagire, hanno realizzato un’inversione a U delle politiche nella direzione opposta, hanno assecondato la perdita di potere negoziale del lavoro, hanno incoraggiato attraverso cultura e comunicazione un cambiamento del senso comune nella direzione di tollerare elevate disuguaglianze, quando non di colpevolizzare i poveri. “La globalizzazione – scrive Atkinson – è il risultato di decisioni assunte da organizzazioni internazionali, governi nazionali, grandi imprese, e da lavoratori e consumatori. La direzione del progresso tecnico è il risultato di decisioni di imprese, ricercatori e governo … Dobbiamo dunque impegnarci di più e chiederci dove le decisioni chiave siano prese” (p.82).

 

A conferma di questa tesi, Atkinson offre una lettura documentata della riduzione delle disuguaglianze del quarantennio post-bellico diversa da quella di Piketty. Egli ricorda che “il welfare state ha le sue origini nella globalizzazione del ‘900”: ovvero, che la globalizzazione storicamente è stata compatibile con, anzi ha indotto, battaglie per l’avanzamento sociale che hanno poi concorso a ridurre le disuguaglianze fino a tutti gli anni settanta. Un ruolo determinante nel ridurre le disuguaglianze hanno avuto in quel periodo i “rapporti di potere” e la cultura a essi connessa: l’aumento dei trasferimenti pubblici e la progressività fiscale, infatti, si accompagnano a un forte potere contrattuale dei sindacati, e ad un senso comune che ritiene primario l’obiettivo della piena occupazione, si oppone a eccessivi differenziali salariali e ritiene giusta la redistribuzione che riduca le disuguaglianze. Movimenti sociali e politici, cultura e politiche pubbliche intenzionali hanno fatto la differenza.

 

A conclusioni simili, non deterministiche, e che sottolineano il peso delle politiche e del rapporto di potere fra imprese e lavoro, arriva Milanovic. La distruzione di capitale finanziario e fisico dei conflitti bellici viene riconosciuta come un fattore importante nella caduta post-bellica delle disuguaglianze – il “fattore maligno” di quella riduzione, la definisce – ma i conflitti vengono interpretati come la conseguenza di medio-lungo periodo dell’elevata disuguaglianza di fine ‘800 – inizio ‘900. Privando il capitalismo di una domanda adeguata, l’elevata disuguaglianza avrebbe spinto – la lettura è di John Maynard Keynes – ad uno “scontro competitivo per i mercati”, che avrebbe prodotto colonialismo e imperialismo e alla fine la stessa I Guerra Mondiale. I benefici per la classe operaia europea derivanti dal colonialismo spiegano l’appoggio di una parte del movimento socialista alle stesse guerre: “lo sfruttamento di altri (produttori pre-capitalisti) e del lavoro delle colonie permise l’incremento dei salari dei lavoratori europei e americani” – scriveva nel 1929 Nikolai Bukharin, citato da Milanovic. A questo “fattore maligno” di riduzione delle disuguaglianze, Milanovic aggiunge quindi i “fattori benigni” indicati da Atkinson: politiche, nascita e forza dei sindacati. La ripresa delle disuguaglianze dell’ultimo trentennio viene quindi letta come l’esito dell’inversione di questi fattori, anche se a Milanovic la spiegazione appare ancora insoddisfacente, “sovradeterminata”. (Milanovic sottolinea che si sono oggi invertiti non solo i fattori benigni, ma anche quello maligno: la fine dello sfruttamento coloniale di India e China e l’entrata su un mercato competitivo e globale delle loro masse di lavoro è fattore di indebolimento del potere negoziale del lavoro in Occidente.)

 

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