Un commento sulla Mozione di sfiducia alla Commissione (approfondimento al secondo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”)
Respingendo con 360 voti la mozione di sfiducia nei confronti della Commissione il Parlamento europeo ha confermato il 10 luglio il sostegno alla Presidente von der Leyen. Quest’ultima era talmente sicura dell’esito che non era neppure presente in Aula al momento del voto (il che in un Parlamento nazionale sarebbe considerato quanto meno uno “sgarbo” istituzionale). Tanta sicurezza le veniva però dal fatto di sentirsi supportata in modo granitico dal presidente del PPE Manfred Weber e dalla fondata convinzione che la maggioranza “progressista” di socialisti, liberali e verdi l’avrebbe sostenuta contro una mozione di sfiducia promossa dalla destra e dall’estrema destra.
Tanto rumore per nulla, dunque? Non proprio. La vicenda si presta infatti a diversi spunti di lettura.
Sul piano del merito va riconosciuto che scegliere come tema per la mozione il cosiddetto “Pfizergate” è stata una scelta interessante perché la responsabilità della Commissione nella vicenda è già stata dichiarata dalla stessa Corte di Giustizia e che la Commissione non sia di norma “transparency friendly” è, da anni, ben noto sia al Mediatore europeo che ai media e ai cittadini.
Detto questo, il tema della trasparenza e dell’apertura dei lavori UE non è ormai più particolarmente popolare neppure nel Parlamento europeo per cui chi ha promosso la mozione non pensava certo di sollevare folle di deputati a sostegno di questi principi. L’operazione, vista da destra, è stata invece probabilmente un test per verificare la consistenza della “maggioranza Ursula” in vista di possibili cambiamenti di maggioranza alla luce delle importanti scadenze in vista.
Qui il test si è rivelato significativo non solo perché 360 voti sono meno dei 401 che avevano eletto lo scorso anno von der Leyen, ma anche perché ai (relativamente pochi) 175 voti contrari potrebbero aggiungersi i 18 astenuti e i 167 deputati che non hanno voluto partecipare al voto a sostegno della Commissione. In totale sono quindi 360 i deputati che non condividono l’esecutivo attuale. Un Parlamento europeo così “dimezzato”, come il Visconte di Calvino, non è però una buona notizia per sé stesso, per l’Unione e, soprattutto per i suoi cittadini e le sue cittadine.
Non bastano poche righe per descrivere quali possano essere le ragioni di questa preoccupante situazione, ma alcuni fatti sembrano comunque emergere chiaramente.
Il primo, banale, è che il Parlamento in questa legislatura non è riuscito a esprimere una piattaforma di governo capace di inquadrare l’attività della Commissione (come era avvenuto in occasione del primo mandato) ma solo a rimettere insieme una “coalizione” unita da soli tre generalissimi obiettivi. Questa genericità a livello degli obiettivi politici ha lasciato le mani libere tanto a Ursula von der Leyen che a Manfred Weber (e non è facile capire chi dei due guidi l’altro). Quest’ultimo potendo contare su una maggioranza di membri PPE tanto nella nuova Commissione che nel Consiglio europeo ha avuto buon gioco a imporre la propria agenda politica anche in seno al Parlamento raccogliendo quando necessario (e sempre più spesso) anche i voti della destra e dell’estrema destra. Questo approccio machiavellico da parte del PPE ha, finalmente, sollevato questa settimana vibranti proteste in aula di socialisti, verdi e liberali che hanno contestato più Manfred Weber che Ursula von der Leyen. Il destinatario ne ha tenuto conto? Ho i più seri dubbi, ma le critiche dei “progressisti” sono rapidamente rientrate a fronte di alcune “aperture” (ancora virtuali) della presidente della Commissione in materia di spese sociali.
Va detto che, a giudicare dal dibattito, questo sostegno alla Commissione è stato dato solo a titolo temporaneo. I tre gruppi politici hanno infatti dichiarato che il vero appuntamento politico con la Commissione sarà a settembre in occasione del suo discorso sullo Stato dell’Unione e sulle prospettive del prossimo programma finanziario pluriennale (2028-2035).
Questi saranno certamente due momenti significativi per comprendere se la Commissione intende proseguire sulla strada imposta da Weber o se intende tener conto anche delle priorità della sua originaria coalizione. A livello nazionale mantenere insieme la coalizione è una preoccupazione primaria di ogni governo e sarebbe ragionevole che Ursula von der Leyen perseguisse lo stesso obiettivo visto che non solo Weber ma anche gli altri presidenti dei gruppi devono tenere conto dei propri elettori e avrebbero quindi grandi difficoltà a giustificare il sostegno di una Commissione che andasse contro le priorità condivise in una piattaforma di governo.
Staremo quindi a vedere se una tale “piattaforma” sarà ripresa nel discorso sullo Stato dell’Unione, ma nel frattempo, vi è da chiedersi:
1) se non sia arrivato il momento, anche per i cosiddetti partiti “progressisti”, di investire nella costruzione di veri partiti politici europei che producano documenti di riflessione e strategie politiche “sovranazionali” e non semplici compromessi fra strategie nazionali. Weber potrà giustamente essere criticato per il suo cinismo ma è da anni che sta cercando di costruire un partito europeo che sia in grado di imporre una propria agenda politica. Non ci sarebbe da sorprendersi che già ora stia “ispirando” von der Leyen in vista del suo intervento di settembre sullo Stato dell’Unione;
2) in secondo luogo, se non sia arrivato il momento di riesaminare attraverso pubblici dibattiti (e non dietro le quinte come sta avvenendo) anche la relazione Parlamento – Commissione attualmente regolata da un accordo interistituzionale del 2010 con il quale il Parlamento si è di fatto disarmato di fronte alla Commissione sotto diversi profili (iniziativa legislativa, controllo di bilancio);
3) in terzo luogo, se non sia il caso per gruppi politici che rischiano di trovarsi all’opposizione di rivedere il Regolamento del PE, in particolare le norme in materia di relazioni interistituzionali, di procedure legislative e di controllo oltre che di trasparenza e di voto in commissione parlamentare. È di fondamentale importanza rendere chiare le responsabilità dei relatori che oggi vengono scelti, non in base alle competenze ma ad astrusi meccanismi e punteggi che negli anni passati potevano essere giustificati per organizzare il lavoro di una istituzione con compiti solo consultivi, ma che sono oggi indegni per un’istituzione che partecipa insieme al Consiglio a definire obblighi e diritti di 450 milioni di cittadini e cittadine europei.










