Intervista a Elena Paparella*, ricercatrice di Diritto costituzionale e pubblico, presso la Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma.
Su molti temi, pensiamo per esempio alla difesa e al riarmo, l’Europa sta prendendo decisioni importanti, che definiremmo “storiche”. Il processo decisionale, però, non è sempre chiaro per i cittadini e le cittadine europee. Qual è il quadro che abbiamo davanti?
Si tratta di decisioni storiche non soltanto in relazione all’oggi e all’immediato futuro, ma anche perché impattano fortemente sugli assetti istituzionali dell’Unione europea. L’Europa sta infatti affrontando questioni come la difesa e il riarmo, che tradizionalmente appartengono alla sfera delle politiche nella loro dimensione statuale, senza essere dotata di effettive competenze in questi ambiti e, per di più, attraverso processi decisionali molto complessi.
A tale riguardo è utile riandare brevemente alla storia della Comunità e dell’Unione europea: la creazione di una comunità di Stati con le prime Comunità europee (CECA E CEE) è stata una seconda scelta, ma l’unica possibile, a fronte dei numerosi progetti federalisti, diffusi già nel periodo tra le due guerre mondiali, ben prima del “Manifesto di Ventotene” del 1941, (tra i tanti, si ricorda la proposta presentata nel 1930 dal Ministro degli Esteri francese Aristide Briand agli Stati europei e alla Società delle Nazioni per “l’organizzazione di un regime di Unione federale europea”, ispirata alle idee confederaliste della “Paneuropa” di Coudenhove Kalergi, o si pensi al movimento “Federal Union” che nasce in Gran Bretagna nel 1939). Con la fine della seconda guerra mondiale e il piano Marshall degli Stati Uniti, questa progettualità federalista viene definitivamente disarticolata. In questa fase si innesta un legame fortissimo, forse più propriamente una dipendenza, con gli Stati Uniti. Solo oggi, soprattutto dopo che Trump è diventato presidente degli USA per la seconda volta, e a causa dei suoi interventi e orientamenti, l’Europa sta perseguendo a fatica una posizione di autonomia.
Nel suo ultimo libro ha dedicato un’interessante digressione storica a questo tema. Ci può raccontare in sintesi questa parabola?
Se guardiamo ancora al passato, rileviamo due snodi importanti. Il primo riguarda il Piano Marshall che, come dicevo, contribuisce al fallimento dei progetti federalisti bilateralizzando i rapporti tra gli Stati Uniti e gli Stati dell’Europa: benché si sia detto che gli aiuti erogati erano condizionati a una comunitarizzazione degli interventi, non è stato così, i governi intraprendono relazioni dirette e bilaterali con l’agenzia americana Economic Cooperation Administration (ECA) per il tramite dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE) (A.S. Milward, 1983). Contestualmente gli USA procedono alla riabilitazione della Germania in funzione antisovietica e questo induce la Francia a quella che chiamo “l’invenzione della sovranazionalità”, ovvero la scelta cosiddetta “funzionalista” di un assetto istituzionale ibrido – diverso dallo Stato federale e piuttosto corrispondente ad una forma confederativa – preposto alla regolazione del mercato interno agli Stati membri, nel quale il Parlamento non è previsto. Lo stesso Jean Monnet è inizialmente contrario all’istituzione di un organo assembleare poiché lo ritiene del tutto estraneo al progetto funzionalista. Tuttavia, ben presto ci si rende conto che occorre un organo rappresentativo che legittimi l’autorità sovranazionale di regolazione del mercato, e viene quindi istituita dapprima l’Assemblea comune e poi il Parlamento europeo: in modo del tutto inedito rispetto alla tradizione del parlamentarismo democratico, nel Parlamento europeo la rappresentanza è disgiunta dalla funzione legislativa e affidata a Commissione e Consiglio.
Il secondo snodo è rappresentato dall’approvazione dell’Atto Unico Europeo (AUE) del 1986, che modifica per la prima volta il Trattato di Roma. Si pensava che nell’AUE dovesse confluire l’onda lunga dei progetti federalisti di Altiero Spinelli, che nel 1984 è ancora al Parlamento europeo e presenta una Risoluzione per il progetto di un nuovo Trattato, che attribuisce al Parlamento i pieni poteri di organo rappresentativo e legislativo. Al Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, nonostante le grandi aspettative e a seguito di trattative complesse i governi decidono per la convocazione di una Conferenza intergovernativa, nella quale, in luogo dell’obiettivo della formulazione di un nuovo Trattato istitutivo – nei termini della proposta di Spinelli – si persegue, ancora una volta, un obiettivo di “seconda scelta” di riforma dei trattati esistenti.
Con la revisione introdotta dall’AUE si perde l’ultima occasione per una riforma in senso “spinelliano-federalista” e si orienta definitivamente l’impianto normativo del Trattato verso l’espansione dei mercati finanziari in Europa. Si apre così il terreno al Trattato di Maastricht, con il progetto della moneta unica e le regole fiscali ad esso collegate. Dal punto di vista della democratizzazione dei processi decisionali, l’AUE introduce un minimo incremento dei poteri referenti del Parlamento europeo, che con la procedura di cooperazione è maggiormente in grado di influenzare le altre istituzioni, sia pure senza legiferare direttamente.
Questa digressione, dunque, ci permette di comprendere meglio la natura della “congenita” fragilità del Parlamento europeo che, per arrivare ai giorni nostri, spiega anche le ragioni per le quali la Commissione europea, al fine di procedere con il Rearm EU, ha potuto fare ricorso alla procedura prevista dall’articolo 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che le consente, “in circostanze eccezionali” di procedere anche senza il voto del Parlamento. La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha infatti presentato una mozione contro la Commissione mettendo in dubbio la legittimità del ricorso all’art.122 TFUE, come base giuridica per il fondo SAFE (creato per sostenere gli Stati membri che desiderano investire nella produzione industriale nel settore della difesa, ndr), anche se non è la prima volta che la Commissione adotta la procedura ex art. 122 TFUE. Vi ha infatti già fatto ricorso durante la crisi dell’euro, quindi con la crisi pandemica per l’istituzione del fondo SURE, spesso paragonato al fondo SAFE, e poi ancora, per misure rivolte all’emergenza energetica con la guerra in Ucraina.
Quest’ultima crisi in corso, relativa al riarmo e alla necessità di un’autonomia nelle politiche di difesa dell’Europa, segue quindi alle altre due grandi crisi – quella dell’euro e quella pandemica – che già hanno prodotto una torsione intergovernativa della governance europea, con la centralità dei Consigli europei e dell’azione della Commissione, anche se la prima è stata orientata ad un rafforzamento delle regole del rigore fiscale, mentre la seconda, in senso del tutto opposto, ha condotto alla sospensione del Patto di stabilità e ad un orientamento più solidale delle politiche europee, anche nel senso della New deal ambientale e della giustizia sociale. Con l’invasione dell’Ucraina e le politiche di Trump si è purtroppo verificata una nuova regressione della solidarietà negli indirizzi delle politiche europee, infatti se attualmente si pensa ad un debito comune, questo è indirizzato all’industria bellica e a riarmo.
Se ne deduce che le grandi crisi sono sempre, di fatto, una cartina di tornasole dell’effettivo funzionamento e degli obiettivi dell’Unione europea: il processo decisionale si rivela nel suo carattere prevalentemente esecutivo, tendenzialmente riduttivo del ruolo del Parlamento, e le politiche – tranne che per la parentesi degli aspetti maggiormente solidarisitici del Next Generation Eu – tendono ad allontanarsi dagli interessi della cittadinanza.
Alla luce di tutto ciò possiamo dire che oggi lo stato di democratizzazione dell’Europa è ancora molto incerto. Come si può affermare che il Parlamento europeo, benché eletto dai cittadini e dalle cittadine e che tuttavia non esercita la piena funzione legislativa, sia un organo dotato di rappresentanza politica? Questo costituisce un problema, sia di natura politica che giuridica. Negli anni, si è sempre cercato di avvicinare funzione legislativa e natura rappresentativa del Parlamento europeo iniettando micro dosi di potere referente, per conferirgli maggiori poteri vincolanti. Oggi, per esempio, il Parlamento può fermare in alcuni casi un atto proposto dalla Commissione nel corso del procedimento di codecisione, ma la democratizzazione dell’Ue attraverso un micro-empowerment del Parlamento europeo si è rivelata non efficace.
Ho apprezzato molto l’idea del gradualismo espressa nel libro “Quale Europa. Capire, discutere, scegliere” di Elena Granaglia e Gloria Riva (Donzelli, 2024): ovvero accantonare l’idea di una “grande riforma” dei Trattati europei poiché al momento non ci sono condizioni politiche favorevoli tra i 27 Stati membri, e procedere piuttosto con un gradualismo riformatore nei vari settori. Ad esempio, per una proposta cui tengo molto – e che riporto nella parte finale del mio libro sul Parlamento europeo – ovvero quella di un potenziamento della partecipazione politica transnazionale dei cittadini europei: si potrebbe introdurre una legge elettorale europea, fondata su di una dimensione transnazionale dei partiti, in modo da costituire una salda relazione di rappresentanza transnazionale tra elettori ed eletti, anche al fine di favorire cambiamenti istituzionali nell’Unione fondati sul consenso dei cittadini e non sulle concessioni dall’alto delle istituzioni e dei Governi (si pensi al fallimento del Trattato costituzionale del 2004 a causa dei referendum popolari in Francia e Olanda) .
A prescindere dal caso della difesa, come si struttura il processo decisionale europeo? Si parla molto del potere del trilogo e del metodo intergovernativo. Cosa si intende più specificamente?
I triloghi sono dialoghi tripartiti informali tra piccoli gruppi di rappresentanti delle tre istituzioni europee: Commissione, Consiglio dei ministri e Parlamento posti in essere nel corso del procedimento legislativo. Si è fatto ricorso ai triloghi a partire dal 1992 quando, con il Trattato di Maastricht, è stata introdotta la procedura legislativa di codecisione, molto complessa e articolata su due letture, posta anche a garanzia del pluralismo istituzionale che caratterizza il processo decisionale nell’Ue, rispetto alla quale i triloghi consentono negoziazioni e decisioni più rapide. Questi non sono disciplinati dai Trattati, ma solo da strumenti di soft law, accordi interistituzionali, oltre che dal regolamento del Parlamento europeo che ne disciplina il procedimento, e si caratterizzano per scarsa trasparenza e difficoltà di accesso ai documenti.
In questo contesto è quindi anche importante approfondire la questione dei gruppi di interesse. Le lobby hanno infatti una particolare presa sul procedimento legislativo europeo perché, diversamente dal procedimento legislativo degli Stati, esso ha una struttura convenzionale che può dirsi congenita, in quanto basata sulla negoziazione tra istituzioni, con la Commissione che propone, il Consiglio che discute e il Parlamento che fornisce pareri. Comprendere la natura del procedimento legislativo europeo è importante per comprendere le modalità dei triloghi e la permeabilità del processo decisionale alle lobby: il trilogo è utile perché accelera le decisioni, spesso infatti consente di deliberare in prima lettura, tuttavia l’inconveniente è dato dalla scarsa trasparenza, in particolare dall’inaccessibilità ai documenti. Quest’ultimo punto è stato infatti anche oggetto di ricorsi presso il Tribunale di Primo grado e la Corte di Giustizia dell’Ue.
Tutto questo ci riporta all’importanza di istituire un filo diretto tra la cittadinanza e i parlamentari per costituire canali di rappresentanza politica appropriati, che possano a loro volta generare la responsabilità politica degli eletti.
Intravede un deficit democratico? E quale strada è possibile percorrere per rimettere al centro la volontà dei “popoli europei”? Ad esempio, quale ruolo possono avere le organizzazioni di cittadinanza attiva, l’associazionismo, la politica dal basso per creare consapevolezza tra le persone e influenzare il processo democratico in seno alla UE?
Bisogna innanzitutto avere chiaro cosa intendiamo per deficit democratico e che forma assume volta per volta. Quello che abbiamo capito, e lo si è visto anche con la questione del riarmo e della difesa, è che i cittadini europei, anche se eleggono il Parlamento europeo, non sono da questo adeguatamente rappresentati, a causa della debolezza del PE nel sistema di governo europeo.
Abbiamo anche capito che i triloghi, benché favoriscano il processo decisionale europeo sul piano dell’efficienza, ne rappresentano un punto debole su quello della trasparenza, e questo, dal punto di vista del principio democratico, non può funzionare. La trasparenza è un principio fondante dello Stato democratico, insieme alla partecipazione e alla rappresentanza democratica. A mio parere una evidente rappresentazione del deficit democratico è data proprio dalla opacità dei triloghi.
Sul punto della strada da percorrere per rimettere al centro la volontà dei popoli europei, come detto, credo moltissimo nella possibilità di riformare il sistema elettorale dando vita a dei partiti transnazionali.
Un’altra strada è quella della divulgazione e della formazione sull’Europa. Posso vedere quanto siano ricettivi gli studenti universitari su queste questioni, si potrebbe pensare a fare formazione sull’Europa anche nella scuola.
In generale direi che viviamo in un momento di difficile transizione nell’Unione europea. Non si possono dare risposte definitive. E quindi il punto non è schierarsi pro o contro l’Europa. L’Europa è tante cose e lo sforzo deve essere piuttosto quello di stare dentro questa complessità e comprenderla. L’Europa è nata nel segno di un sistema istituzionale ibrido – non uno Stato, ma un’Unione, non separazione netta dei poteri né garanzia piena dei diritti – e tuttora conserva questo carattere. Però non se ne può fare a meno, questo è sicuro.










