Per Tito Boeri che scrive un pezzo contro i 4 referendum sul lavoro che si votano l’8 e il 9 giugno insieme a quello sulla cittadinanza, è strano che nonostante l’offerta di lavoro sia minore della domanda, nonostante le imprese si tengano i lavoratori con contratti di non concorrenza, nonostante i contratti di lavoro a tempo indeterminato siano aumentati, i salari in Italia abbiano la peggior dinamica tra i paesi OCSE, in pratica con incrementi zero o addirittura negativi tra 1990 al 2022. Ma solo chi pensa che il licenziamento regoli il mercato del lavoro e non l’impresa come istituzione si può sorprendere di questo fenomeno, che le riforme del licenziamento possono solo aver contribuito ad alimentare
Giovedì 15 maggio è stato pubblicato su Repubblica un bell’articolo di Elena Granaglia e Andrea Morniroli che illustra sinteticamente le ragioni del ForumDD per cinque SI nei prossimi referendum abrogativi in materia di lavoro e di acquisizione della cittadinanza. Non è sorprendente che a fianco appaia un articolo di Tito Boeri che sostiene invece che i referendum in materia di lavoro – da quello sull’abrogazione della riforma dell’art.18, che ha istitutivo come unico rimedio al licenziamento ingiustificato un indennizzo monetario prestabilito, a quello sulla reintroduzione della giustificazione per il ricorso ai contratti a tempo determinato – sarebbero mal posti, perché oramai – causa le dinamiche demografiche italiane – la domanda di lavoro delle imprese è superiore all’offerta dei lavoratori, e soprattutto i licenziamenti sono diminuiti, mentre il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato è cresciuto di numero. Questo metterebbe il referendum (specie quello sulla legge abrogativa delle norme in materia di licenziamento) fuori fase storica. Tuttavia, ciò che è sorprendente, per Boeri, è che nonostante l’offerta di lavoro sia minore della domanda, nonostante le imprese si tengano i lavoratori con contratti di non concorrenza, nonostante i contratti di lavoro a tempo indeterminato siano aumentati, ebbene nonostante ciò, i salari non sono aumentati, anzi abbiamo i salari con la peggior dinamica tra i paesi OCSE, in pratica con incrementi zero o addirittura negativi tra 1990 al 2022 (tema ricordato spesso da Draghi).
Il punto è che solo chi ragiona come Boeri – pensa cioè che il licenziamento regoli il mercato del lavoro e non l’impresa come istituzione, in cui si esercitano autorità e potere tra soggetti legati da relazioni idiosincratiche – si può sorprendere di questo fenomeno, che le riforme del licenziamento possono solo aver contribuito ad alimentare (certo non contrastare). E’ infatti esattamente l’effetto che ci si poteva aspettare da quella riforma, che indebolisce il lavoratore o la lavoratrice quando insorge un contrasto con l’imprenditore, e il secondo, a causa dell’incompletezza del contratto, può perciò ricorrere alla minaccia del licenziamento per ottenere la rinuncia alle pretese del lavoratore, non correndo il rischio di avere un giudizio negativo da parte del giudice che obblighi ad annullarlo. Il contratto incompleto e la posizione di autorità del datore di lavoro senza rimedi (esterni o interni) implica minor potere negoziale. Minor potere negoziale porta all’acquiescenza, quindi all’adozione o mantenimento del contratto a condizioni salariali più basse (aggiungo: “ma che bella scoperta!”).
Questa era esattamente la previsione che facevo in un saggio di commento alla riforma dei licenziamenti (pubblicato a cura di M.T. Carinci, A. Tusi, Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli 2015) che “profeticamente” (si fa per dire) intitolavo:
La tesi argomentata è che il nuovo assetto avrebbe portato a maggior rischio di abuso di autorità e del potere negoziale del datore di lavoro e conseguentemente a minori investimenti specifici in capitale umano, per il semplice motivo che la minaccia di licenziamento e il modesto indennizzo riducono l’aspettativa del lavoratore di potere trarre beneficio dai propri investimenti in capitale umano, e disincentiva il datore di lavoro a contribuirvi (temendo che non siano messi a frutto). Con conseguente svalorizzazione del lavoro, proprio laddove si usa il contratto a tempo indeterminato. Non si trattava di testo propagandistico, ma di un’analisi di economia delle istituzioni, il cui risultato è ottenuto con la semplice logica dell’argomentazione (senza bisogno di statistica). Perché dalla comprensione del contratto si lavoro come tipico contratto incompleto, che sta al centro dell’impresa, quando si elimina per il datore l’incertezza sull’esito di un licenziamento abusivo, e si può calcolare esattamente quando è vantaggioso farvi ricorso (dati i benefici in termini di appropriazione del surplus rispetto ai costi dell’indennizzo) seguono semplicemente la previsione dell’abuso di autorità e quindi minori investimenti in capitale umano (del lavoratore e dell’imprenditore), cioè inefficienza del’impresa, e salari più bassi cioè iniquità.
Penso che sia utile riproporlo oggi per mostrare che un po’ di sana analisi economica delle istituzioni avrebbe permesso di prevedere esattamente ciò che ora sorprende Boeri (ridurre la forza negoziale del lavoratore riduce la dinamica salariale: che incedibile scoperta!).
Abbastanza prevedibilmente, io proponevo allora (come fa il ForumDD) che al posto della riforma dell’articolo 18 sarebbe stato molto meglio aumentare il potere dei lavoratori nel governo delle imprese, con forme di democrazia economica (diciamo “alla tedesca”) che prevedano poteri di co-decisione su queste materie (ad es. piani di ristrutturazione), grazie ai quali – come si sa – in Germania storicamente ben pochi sono stati i licenziamenti e oggi, piuttosto che accettare di farli, cadono i vincoli costituzionali al debito, che impedivano investimenti industriali pubblici.
Foto di Brian Scott su Unsplash










