Intervista a Luca Fossati, dal 2010 consigliere del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo su questioni finanziarie, di macroeconomia, di politica monetaria e di commercio internazionale, oggi responsabile di fornire competenze tecniche e politiche sulle priorità strategiche del Gruppo.
Dopo l’intesa tra Donald Trump e Ursula von der Leyen il 27 luglio scorso, ufficializzata con una dichiarazione congiunta il mese successivo, sull’accordo commerciale Ue-Usa si devono ora esprimere il Parlamento europeo e il Consiglio, approvando la proposta legislativa secondo la procedura ordinaria. Poi, come tutte le proposte legislative, Parlamento, Consiglio e Commissione si siederanno attorno a un tavolo per raggiungere un accordo che andrà sottoposto agli Stati Uniti per l’accordo finale. Questi i principali punti dell’accordo: l’imposizione di dazi del 15 per cento all’Ue da parte degli Usa al posto del 30 per cento stabilito in mancanza di accordo; l’eliminazione dei dazi su tutti i prodotti industriali statunitensi che entrano nell’Ue; l’aumento delle importazioni nel settore energetico, soprattutto gas naturale liquefatto (750 miliardi di dollari in tre anni), e in quelli degli armamenti.
Ne abbiamo parlato con Luca Fossati, dal 2010 consigliere del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo su questioni finanziarie, di macroeconomia, di politica monetaria e di commercio internazionale, oggi responsabile di fornire competenze tecniche e politiche sulle priorità strategiche del Gruppo.
Quali sono gli aspetti più critici dell’accordo?
L’Accordo Quadro prevede un numero di punti significativi che meritano di essere approfonditi. Quello più discusso riguarda i dazi, fissati al 15% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, a fronte di tariffe pari a zero sulle esportazioni americane in Europa.
A questo si deve aggiungere l’impegno dei membri europei della Nato di alzare le spese per la difesa al 5% del Pil e di acquistare equipaggiamenti militari dagli Stati Uniti per sostenere l’Ucraina. Infine, la Commissione ha promesso investimenti per 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e acquisti per 750 miliardi di dollari in gas, petrolio ed energia nucleare.
Vanno poi considerati alcuni elementi meno dibattuti, ma non per questo meno rilevanti. La Commissione si è impegnata a riconsiderare alcuni punti del Regolamento sulla deforestazione per “affrontare le preoccupazioni dei produttori e degli esportatori statunitensi al fine di evitare un impatto eccessivo sul commercio USA-UE”. Inoltre, si è impegnata “a lavorare per fornire ulteriori flessibilità nell’attuazione del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism, meccanismo che impone un costo sulle importazioni di merci ad alta intensità di carbonio, ndr)”. Infine, ha promesso di ridurre l’onere amministrativo per le imprese americane nel contesto della Direttiva sulla due diligence della sostenibilità aziendale (CSDDD) e della Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (CSRD), entrambe centrali nel più ampio quadro legislativo del Green Deal.
Senza considerare che da quando è stato firmato quell’accordo si sono aggiunti altri dazi: il 25 settembre scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo aggiungendo una tariffa del 100% sui prodotti farmaceutici (che doveva entrare in vigore dal 1 ottobre ma è stata sospesa, ndr) e nuovi dazi su mobili e camion pesanti mentre ha mantenuto le tariffe su alluminio (10%) e acciaio (25%) che si aggiungono alla tassa flat del 15%. Stiamo parlando di cifre enormi che metteranno e stanno mettendo in enorme difficoltà gli esportatori europei.
A fronte di questi elementi fattuali, faccio fatica a condividere le parole della Commissione che l’accordo possa rappresentare un passo verso “un commercio e investimenti equi, equilibrati e reciprocamente vantaggiosi”. L’unico scopo di quei dazi, come è stato osservato, era permettere a Donald Trump di raccogliere denaro per finanziare, nel breve periodo e indirettamente, la sua riforma fiscale “big beautiful bill”. Approvata dal Congresso a luglio, tale legge aggiungerà fino ai quattromilacinquecento miliardi di dollari di debito pubblico. La sostenibilità della posizione fiscale americana dipende quindi completamente dalle entrate garantite da queste tariffe.
La situazione è in costante evoluzione. Aspettiamo la decisione della Corte Suprema sulla legalità della decisione presidenziale, ma non terrei il fiato sospeso onestamente, vista la composizione politica della Corte. Oltretutto, le minacce di imporre dazi aggiuntivi contro i paesi che regolano e tassano il settore digitale, cioè il Digital Services Act (DSA), la regolamentazione europea delle grandi piattaforme social, dimostrano che la situazione non è né stabile né prevedibile.
La proposta legislativa è ora al vaglio del Parlamento europeo. Cosa dovrebbero cercare di modificare, secondo lei, i progressisti?
Per prima cosa vorrei ricordare che l’accordo quadro non è in linea con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio che, in base al principio della nazione più favorita, vieta di discriminare gli altri membri. Cosa che i dazi di Trump non hanno rispettato.
In quanto alle possibili modifiche, bisognerebbe lavorare per inserire una “standstill clause”, una clausola che potremmo tradurre “di sospensione”, che impegna i firmatari dell’accordo, una volta raggiunto, a non introdurre ulteriori dazi. In altre parole, firmato l’accordo non dobbiamo temere che la settimana successiva vengano minacciati o firmati ordini esecutivi con nuovi dazi per specifici settori.
Si deve infine fare chiarezza su tutti i dettagli dell’accordo, perché ci sono ancora molti aspetti che non sono chiari. Lo spiego con un esempio che ci è stato fatto da alcuni produttori europei che esportano deodoranti negli Stati Uniti. Si tratta di deodoranti classici, che dovrebbero rientrare nella “flat rate” del 15 per cento. Il problema è che nella confezione del deodorante c’è un po’ di alluminio e l’intero prodotto è stato sottoposto ai dazi per l’alluminio, che sono più alti. Si tratta di un esempio molto preciso, ma fa capire quante di queste situazioni si possono creare se non si leggono le carte nel dettaglio.
Cosa avrebbe dovuto fare l’UE secondo lei?
Avrebbe dovuto reagire con fermezza, usando strumenti che aveva già a disposizione e rifiutandosi di giocare al gioco di Trump. Le armi da mettere sul tavolo erano molteplici. Innanzitutto c’era la possibilità di usare – o di minacciare di usare – il meccanismo di anti-coercizione, pensato esattamente per situazioni di questo tipo. Poi, visto che il mercato europeo è fondamentale per i prodotti tecnologici americani, la minaccia di dazi su settori simbolici come l’aeronautica (Boeing), il digitale (Meta e X), l’energia liquefatta (LNG) o i dispositivi medici avrebbero colpito lobby molto potenti a Washington e creato immediatamente pressione sulla strategia di Trump.
Ma c’era anche la possibilità di mettere pressione sul debito americano che ammonta a circa 37.000 miliardi di dollari, con un deficit di circa 2000 miliardi, pari a circa il 6 % del PIL. E le previsioni indicano che aumenterà ulteriormente, come ho spiegato prima. Trump, o chi per lui, sa che il “big beautiful bill” ha bisogno di liquidità per non esplodere sui conti. La pressione, o per meglio dire l’assalto, alla FED per abbassare i tassi va letta in questo senso. Ma non solo, sono in corso anche trucchi finanziari, come quello di abbassare il supplementary leverage ratio per incentivare le banche a comprare titoli di stato. Immaginate che pressione avrebbe messo sugli USA anche solo l’idea di un’azione comune UE, Cina, Canada, India, Messico e Brasile sulle aste del tesoro americano, che entro la fine dell’anno ammonteranno a circa 9000 miliardi di dollari.
Anche la web tax o una tassa sulle grandi imprese digitali americane potevano essere armi di pressione, come dimostrato anche dagli attacchi di Trump. Negoziando solo sui dazi la Commissione si è auto-confinata a una posizione di debolezza, come vediamo dall’ambiguità americana nella guerra russa in Ucraina.
L’Europa avrebbe retto a questa guerra di dazi e contro dazi?
Si sarebbe trattato di una strategia negoziale per prendere più tempo e, nel frattempo, procedere con accordi, anche a geometrie variabili,con altri paesi per creare un mercato alternativo. Applicare, o minacciare di applicare contro dazi avrebbe permesso di capire anche la reazione delle lobby di Washington su Trump. Sarebbero stati gli stessi produttori ed esportatori americani a opporsi. Purtroppo la debolezza dell’Unione europea è dovuta anche al suo assetto istituzionale.
A cosa si riferisce?
L’UE paga la sua incompletezza e la debolezza delle sue istituzioni. Paga il non essere una vera federazione di stati, la sua cacofonia sulla scena globale e la mancanza di un obiettivo comune di futuro. Questo ha costretto i negoziatori della Commissione ad un approccio settore per settore, quando per esempio avrebbe dovuto esigere di considerare il surplus americano sui servizi. Secondo, la posizione europea è sempre determinata dai suoi paesi economicamente più rilevanti, come la Germania, la quale non poteva permettersi un conflitto commerciale. Infine, l’UE non ha un’autonomia militare: ha goduto del “peace dividend” per decenni, senza investire in tecnologie del XXI secolo. In pratica, un accordo commerciale sbilanciato e umiliante è stato il prezzo pagato per la nostra debolezza geopolitica.
È la crisi del multilateralismo per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi venticinque anni?
Indubbiamente. L’Organizzazione Mondiale del Commercio è in coma profondo e non si vedono segnali di risveglio. Se da un lato gli USA non rispettano il quadro giuridico dell’OMC imponendo nuove tariffe, noi, come Unione Europea, accettando di giocare la sua partita, abbiamo legittimato questo atteggiamento e ci siamo allontanati dal quadro multilaterale. Al contrario, un approccio diplomatico e rispettoso del quadro multilaterale, ma anche fermo e deciso nel difendere l’Europa, i suoi cittadini e le sue imprese, avrebbe richiesto più pazienza e più sangue freddo ma avrebbe pagato sul medio termine. La linea dell’accondiscendenza scelta per trattare con gli USA è stata se non altro affrettata.
Abbiamo però la possibilità concreta di dimostrare che gli accordi commerciali secondo le regole hanno un futuro.
In che modo?
L’UE sta attualmente conducendo trattative per concludere accordi di libero scambio con Indonesia, India, Malesia, Tailandia, Australia, i paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay) e Messico. Senza dimenticare le negoziazioni con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). Questi sono gli accordi ai quali facevo riferimento in precedenza. A questo aggiungiamo che si deve lavorare a strettissimo contatto con la regione Asia-Pacifico, e in particolare con i membri del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP). Una riunione di alto livello UE-CPTPP per discutere su come preservare le regole commerciali globali è prevista prima della fine dell’anno.
Si tratta di fare accordi commerciali utili non solo al commercio in se per se, ma anche e soprattutto come strumento diplomatico, per difendere la democrazia, per stabile un nuovo multilateralismo, per caldeggiare investimenti con clausole forti per la sostenibilità e per trovare nuove strategie per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.










