Un commento sulla definizione del programma europeo per l’housing accessibile. Un approfondimento dal terzo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”
Sono ormai diversi mesi che la Commissione parlamentare sull’housing, istituita con il compito di elaborare entro la fine del 2025 un rapporto per orientare la definizione del Programma europeo per l’housing accessibile, ha avviato i suoi lavori. Un’attività che, assieme a quella svolta dalla Task force della Commissione europea – appositamente istituita sotto l’egida di un Commissario delegato – e alla consultazione pubblica terminata in questi giorni, testimonia l’impegno assunto dalle istituzioni UE per fronteggiare una crisi abitativa ormai dilagante.
Il quadro che emerge dai dati è assai eloquente: tra il 2010 e il 2024 i prezzi delle case sono aumentati del 55,4%, quelli dell’affitto del 26,7. Un trend tuttora in crescita: se nella media UE i costi dell’housing assorbono quasi il 20% del reddito disponibile (2023), per le persone a rischio povertà, il 9%della popolazione UE, questa quota arriva ormai poco sotto al 40%. Non solo. Circa il 17% della popolazione europea vive in abitazioni sovraffollate (ma il 33% in case sovradimensionate); poco meno dell’11% non ha i mezzi per mantenere la propria casa adeguatamente riscaldata.
Ad essere colpite dalla fragilità abitativa sono ormai da tempo fasce sempre più ampie di popolazione, non solo le più vulnerabili, con evidenti fratture sociali, generazionali e di genere.
Un cambio di passo dovuto, dunque, che risponde al non più rinviabile superamento di quella interpretazione del principio di sussidiarietà che sin qui ha giustificato la marginalizzazione della questione abitativa nell’agenda politica UE come inevitabile conseguenza dell’assenza di una sua competenza diretta, senza prendere in considerazione le tante politiche UE che, anche indirettamente, hanno impatto sul diritto all’abitare. Un diritto non confinabile solo alla disponibilità di un tetto, ma alla qualità complessiva degli ambienti di vita, data dalla casa, dalla accessibilità ai servizi fondamentali (di istruzione, cura, mobilità, connettività digitale), dalla disponibilità di spazi verdi e luoghi di aggregazione.
Molto chiari sono ormai gli effetti di questa situazione non solo sulla tenuta della coesione sociale dell’Europa e dei suoi territori, ma anche sulla sua stessa performance economica, per le gravi conseguenze in termini di mobilità di lavoratori e studenti, di autonomizzazione dei giovani dalle famiglie di provenienza.
Così come chiare sono le interdipendenze che rendono la povertà abitativa un fenomeno multidimensionale, alimentato sì dalla scarsità dell’offerta (riconducibile a più fattori) e dall’aumento incontrollato dei costi dell’housing, ma anche, e tutt’altro che marginalmente, dalla povertà di reddito, conseguente alla diffusione del lavoro povero e a sostegni ai più vulnerabili spesso inadeguati. Un fenomeno strettamente intrecciato alla povertà energetica, a sua volta generatore di povertà educativa, per questo precursore di povertà lavorativa, in una spirale perversa di alimentazione reciproca.
Sorprende quindi non poco il tenore del Draft Report della Commissione parlamentare, pubblicato il 15 settembre scorso.
Lungi dal muovere da queste premesse, nonostante non ne manchino i richiami, esso infatti individua nella insufficiente offerta di edilizia residenziale, la causa principale della crisi abitativa, e incentra le sue proposte sullo stimolo all’industria delle costruzioni, attraverso la riduzione degli oneri amministrativi, la semplificazione delle procedure autorizzative, il supporto alle PMI del settore e financo l’aumento delle aree edificabili (con buona pace della riduzione del consumo di suolo, mai citata). Del tutto mancanti i richiami al crescente disinvestimento pubblico (non solo finanziario) in questo ambito, alla ormai dilagante finanziarizzazione del bene casa, alla crescita incontrollata degli affitti brevi, alla piaga delle abitazioni inutilizzate, implicitamente chiamate in causa solo per stigmatizzare le occupazioni abitative, in un’ottica repressiva e non di rimozione delle cause che le alimentano.
Certo, ci sono anche misure rivolte ai gruppi più vulnerabili, tra i quali non manca una forte attenzione ai giovani, così come non manca il richiamo all’importanza di un efficace uso dei fondi pubblici disponibili. Per quelli europei, il principale riferimento, a parte il Next Generation EU, ormai in chiusura, e alla Banca europea per gli investimenti, è la politica di coesione, di cui si richiama l’impegno al raddoppio delle risorse già assunto dalla Commissione europea, ma si trascura la capacità di attivare strategie territoriali integrate, le uniche in grado di affrontare la multidimensionalità della povertà abitativa, luogo per luogo, riconoscendone bisogni, aspirazioni, ostacoli e potenzialità.
Così come il richiamo al Partenariato Pubblico Privato (PPP) più che come moltiplicatore di risorse e conoscenze, come inevitabile conseguenza della (anch’essa inevitabile!) limitatezza delle risorse pubbliche, non solo finisce con il legittimarne una presunta funzione sostitutiva (quale mai potrà essere) ma, mancando ogni lettura critica di esperienze pregresse, trascura del tutto l’eterogenesi dei fini cui può condurre un PPP non guidato dalla primazia della tutela dell’interesse collettivo.
Nulla, dunque, che abbia a che fare con il riconoscimento del diritto all’abitare come diritto fondamentale per tutti i cittadini europei e le cittadine europee, con la conseguente necessità di una piena responsabilizzazione delle politiche pubbliche, non solo in termini finanziari. Nulla che richiami la necessità di porre un argine a quella deriva speculativa che vede sempre più la casa come un asset da cui estrarre rendita, né che si ponga l’obiettivo di affrontare la complessità della povertà abitativa e del suo intreccio con tante altre forme di povertà.
Nulla che abbia a che fare, infine, con quella che è l’unica prospettiva in grado di dare concretezza alla svolta così enfaticamente annunciata, ovvero l’integrazione del diritto all’abitare nella governance economica europea, nei suoi strumenti e processi. In linea con le posizioni già espresse da più parti, è infatti ormai tempo di assumere il diritto all’abitare come obiettivo trasversale a tutte le politiche europee che direttamente o indirettamente possono incidere sulla sua esigibilità e, allo stesso tempo, di orientare più incisivamente le politiche nazionali degli Stati membri, con tutte le leve a disposizione (Piani nazionali strutturali di bilancio, Raccomandazioni specifiche Paese) anche al fine di evitare che il necessario potenziamento dell’impegno europeo finisca con il sostituirsi a quello degli Stati membri. È questo ciò che attendiamo.






