Un commento su quanto sta accadendo oggi in Europa sul tema della democrazia economica (approfondimento al primo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”).
Nel febbraio 2025 la Commissione europea ha pubblicato la comunicazione “A Simpler and Faster Europe”, che propone di accompagnare ogni futura regolamentazione con analisi di efficacia, valutazioni dei costi di attuazione e revisioni periodiche per verificarne l’impatto rispetto agli obiettivi prefissati. In linea con questi principi (anche se in modo solo apparente, poiché nessuna analisi di impatto può essere realizzata su norme così recenti da non esser ancora entrate in vigore), a marzo la Commissione ha presentato due proposte di direttiva che modificano normative esistenti sugli obblighi di sostenibilità delle grandi imprese.
La prima, approvata nella prima settimana di aprile, semplicemente proroga i termini di attuazione delle direttive CSRD (Corporate Sustainability Reporting) e CS3D (Corporate Sustainability Due Diligence). La seconda, detta OMNIBUS, introduce modifiche sostanziali a quattro direttive, tra cui la CS3D, e attende l’approvazione di Parlamento e Consiglio.
Con riferimento all’emendazione della CS3D, cui il ForumDD è maggiormente interessato, si può riassumere quanto segue. La nuova definizione di stakeholder include lavoratori e lavoratrici, comunità locali e le loro rappresentanze sindacali, ma elimina ogni riferimento a ONG e organizzazioni attive su diritti umani e clima. Si riducono poi le materie su cui gli stakeholder devono essere consultati: sono esclusi dalla elaborazione degli indicatori di impatto su diritti umani e ambiente. Questo restringimento è problematico: le grandi imprese spesso esternalizzano parti del processo produttivo per relazionarsi con fornitori che impiegano lavoratrici e lavoratori non sindacalizzati, e le ONG svolgono un ruolo cruciale nel rafforzare la voce degli stakeholder più deboli. La loro esclusione compromette quindi l’efficacia della partecipazione degli stakeholder, che rappresenta uno dei principali meccanismi attuativi “endogeni” della direttiva (un certo grado di empowerment di soggetti interessati intrinsecamente al successo della due diligence e a fare watch-dog della sua attuazione).
Altro emendamento sostanziale è la limitazione della due diligence ai soli partner d’affari diretti. Poiché è immediato pensare che potrebbero esser istituiti intermediari di comodo (specie con la versione emendata, che richiede di effettuare la due diligence ogni 5 anni), il testo dice che vi sarebbe comunque dovere di estendere l’esame su partner non diretti, qualora vi sia conoscenza circa rilevanti impatti negativi da parte di questi ultimi, ovvero qualora si possa sospettare che l’essere partner indiretto risulti da una costruzione artificiosa per evitare la verifica. Il quadro si completa con l’emendamento che esclude la possibilità di chiedere informazioni direttamente al partner d’affari che abbia meno di 500 dipendenti, anche se vi è una clausola che permette di derogare a tale limitazione.
Questi emendamenti riducono significativamente i doveri di due diligence, ma al contempo aumentano la complessità delle norme, introducendo clausole condizionali per fare eccezione ai limiti posti agli obblighi generali, lasciando ampi margini di discrezionalità alle imprese.
La possibilità di ricorrere come extrema ratio all’interruzione dei contratti con partner d’affari responsabili di gravi impatti negativi è ora esclusa, restando al massimo la sospensione (pur sottoposta a molti caveat, volti ad appurare che essa non peggiori per altri versi la condizione di lavoratrici e lavoratori coinvolti). Ciò riduce chiaramente la forza dissuasiva che l’impresa può esercitare verso i partner commerciali e conseguentemente l’effettività della norma. Anche sul fronte delle sanzioni pecuniarie si registra un arretramento: l’obbligo di adottare un criterio uniforme viene sostituito da un generico rinvio alle normative nazionali, aumentando incertezza e disomogeneità.
È evidente che la ratio di molti emendamenti non sia garantire efficacia o semplificazione, ma una riduzione delle ambizioni della direttiva. Tutti i documenti in esame richiamano inoltre l’ispirazione al piano Draghi sulla competitività europea e la priorità della “creazione di valore”. Benché sia noto che con tale espressione si intenda spesso semplicemente “valore per qualcuno” (cioè profitti), è tuttavia abbastanza imbarazzante osservare come si ammetta ormai apertamente che questi valori, meramente strumentali, possano costare la riduzione della protezione di valori di rango ben più elevato, quali la protezione dei diritti umani e la lotta al cambiamento climatico. Un trade-off in merito al quale ogni progressista nel Parlamento Europeo dovrebbe sapere come schierarsi.
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