Un commento sulla proposta di creare un nuovo regime per imprese e start-up innovative. Un approfondimento dal terzo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”
Nella strada verso la semplificazione e la competitività, un posto importante è occupato da una proposta al cuore del Rapporto Letta e condivisa dal Rapporto Draghi: la creazione, per le start up e le imprese innovative, di un 28° regime, una legislazione d’impresa unitaria che dovrebbe valere in tutta l’Unione, aggiungendosi alle 27 normative nazionali.
L’idea di fondo è che la frammentazione normativa ostacoli gli investimenti e la competitività, imponendo alle imprese che intendano operare in più Paesi di destreggiarsi fra regole spesso oscure e assai diverse. Il risultato sarebbe un aumento dei costi amministrativi e un incentivo alla fuoriuscita dei capitali europei verso altri mercati, con effetti particolarmente penalizzanti per le piccole e medie imprese, che costituiscono oltre il 90% del tessuto produttivo europeo. Gli ambiti coinvolti sono numerosi: dal fisco al diritto del lavoro, dal diritto societario e commerciale a quello dei mercati finanziari, dalle procedure esecutive e fallimentari al diritto bancario, fino alla proprietà intellettuale e alla fiscalità d’impresa.
La promessa è, dunque, quella di un’Europa più semplice e attrattiva. Ma dietro questa promessa si celano questioni normative e politiche di grande rilievo, che rischiano di trasformare la semplificazione in uno strumento di indebolimento delle tutele sociali e di deresponsabilizzazione pubblica.
Il ritardo dell’Unione nel campo dell’innovazione, in particolare nel digitale, è indubbio. Il 28° regime, però, pone almeno due importanti questioni, oltre al rischio concreto di un lunghissimo processo di discussione senza risultati. Non dimentichiamo i tanti stalli che hanno caratterizzato iniziative analoghe, come la proposta di società privata europea del 2008 o quella di società a responsabilità limitata con socio unico del 2014. Le vicende della direttiva europea in materia di rispetto dei diritti umani e dell’ambiente di cui si parla nella sezione sulla democrazia forniscono un esempio ulteriore. Data questa realtà, forse sarebbe più realistico intervenire sugli ostacoli principali mediante direttive di armonizzazione mirate.
Passando alle questioni normative, la prima riguarda il rischio di una corsa al ribasso. Il denominatore comune di una normativa europea unitaria non potrà che collocarsi sui livelli regolatori più permissivi, con effetti negativi in termini di compressione delle remunerazioni e di indebolimento complessivo della voce dei lavoratori e delle lavoratrici. Lo stesso vale per il fisco: il rischio è quello di una sottrazione alle legislazioni nazionali sul lavoro e sulla tassazione, a vantaggio di standard meno rigorosi a livello europeo.
Una dinamica non lontana da quella già sperimentata con la direttiva Bolkestein, con buona pace della dimensione sociale dell’Unione.
Le indicazioni attuali limiterebbero l’applicazione del 28° regime alle start up e alle imprese innovative, ma data la genericità della qualificazione di “innovativo” non è difficile immaginare una progressiva estensione a un numero crescente di imprese. Non va sottovalutata, in questo senso, la forte azione di lobbying in corso da parte delle grandi imprese europee.
La seconda questione riguarda l’assunto soggiacente, ossia che le scelte su dove e come innovare debbano essere lasciate alle imprese. Ma le scelte in materia di tecnologia non sono assimilabili a quelle sui beni di consumo: esse influenzano le modalità di produzione, l’accesso ai dati, i rapporti sociali e ambientali. Non possono, pertanto, essere lasciate alle sole imprese. Devono essere assunte collettivamente. Serve, dunque, una politica industriale, ribaltando la delegittimazione che ha colpito tale politica negli ultimi anni.
Non si tratta di riproporre un dirigismo selettivo, dove lo Stato decide quali imprese sostenere. Si tratta piuttosto di una politica che, come sottolineano Dani Rodrik, economista e professore alla Harvard Kennedy School, e Charles Sabel, professore alla Columbia Law School, definisca le finalità fondamentali per lo star bene collettivo, inclusa una transizione ecologica giusta, facendo leva su processi di apprendimento interattivo tra settore pubblico, imprese e cittadini. Processi fondati su trasparenza, verifica dei risultati e sanzioni in caso di mancata comunicazione o di fallimenti ripetuti.
In questa prospettiva, la vera sfida non è creare un nuovo regime giuridico comune, ma ricostruire una capacità collettiva di orientare lo sviluppo tecnologico ed economico verso finalità condivise di giustizia sociale e ambientale.






