Un commento sulle Direttive sulla corporate due diligence (approfondimento al secondo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”)
I. Introduzione
Nella fase finale della scorsa legislatura, Parlamento europeo e Commissione hanno introdotto due direttive che hanno segnato un cambio di approccio rispetto a quello seguito nello sviluppo oltre che 25ennale cominciato sotto le insegne della “corporate social responsibility”: la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) sulla rendicontazione (reporting) di sostenibilità e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CS3D) sulla due diligence di sostenibilità. Dall’approccio impropriamente denominato “volontario” – in realtà di soft law – a quello attuale, che impone obblighi legislativi cogenti almeno per le imprese di maggiore dimensione. Non solo nella sfera della rendicontazione (con criteri restrittivi al green washing e nuovi, meno comodi, parametri sociali su condizioni di lavoro, relazioni sindacali etc). Ma anche in quella dell’autorganizzazione dell’impresa, in modo da prevedere, prevenire, eliminare, ridurre e risarcire rischi ed effettivi costi di violazione di diritti umani e convenzioni ambientali, e quindi introducendo in modo cogente nuovi vincoli e obiettivi che gli amministratori delle imprese dovrebbero considerare nei processi di corporate governance e nella conduzione dell’impresa.
La nuova legislatura parlamentare non era ancora cominciata e la nuova maggioranza von der Leyen era appena stata formata che già la nuova Commissione proponeva due direttive con lo scopo (la prima) di sospendere l’entrata in vigore di CSRD e CS3D, e l’altra di restringerne ulteriormente il campo di applicazione alle più grandi corporations, e di ridurre la capacità di penetrazione della due diligence nella catena del valore e il coinvolgimento degli stakeholder posti a concorrere e vigilare. È visibile in ciò l’effetto congiunto delle minacce della nuova amministrazione americana, che non accetta le regolazioni europee aventi effetto sulle imprese USA, e del sovranismo di destra di alcuni governi nazionali, contrari ad ogni regola comune europea. Ma evidente è anche l’impatto negativo dell’idea che la competitività sistemica dell’Europa – per ora attuata solo con piani di riarmo diretto e indiretto – debba diventare il parametro di valutazione di ogni cosa, ad esempio se il rispetto dei diritti umani da parte dell’impresa abbia un costo sopportabile o eccessivo (ammetteremo allora la produzione di armi usate contro i diritti umani?!).
Alcune settimane addietro la BCE è intervenuta autorevolmente in modo articolato, contestando abbastanza nettamente e sotto molti profili gli interventi di ridimensionamento dell’efficacia di entrambe le direttive, specie le limitazioni che riducono in estensione il numero delle imprese che sarebbero tenute a svolgere e pubblicare la rendicontazione di sostenibilità e le informazioni di due diligence, nonché la profondità e la qualità di questa informazione.
Nelle poche pagine che seguono presentiamo due linee esplicative di ciò che è accaduto e sta accadendo col progresso e la successiva regressione rappresentati dalla vicenda delle due direttive CSRD e CS3D e commentiamo il contributo dato da BCE alla comprensione della materia.
II. Due spiegazioni della corporate sustainability europea
Ci sono due strategie che spiegano la stagione di approvazione di direttive europee in materia di sostenibilità di impresa (le suddette CSRD e CS3D).
La prima è fondata sulla credenza che le imprese possano (o addirittura debbano) perseguire solo il valore patrimoniale, quindi possano al massimo avere un interesse strumentale per la sostenibilità nella misura in cui essa influisce sulla reputazione d’essere un buon investimento finanziario (se serve cioè al valore patrimoniale).
L’idea è allora imporre obblighi di rendicontazione e trasparenza, in modo da usare l’interesse strumentale delle imprese ad avere buona reputazione presso gli operatori finanziari, i grandi fondi in particolare: l’idea è che tali fondi leggano le informazioni contenute nei bilanci di sostenibilità (o nei rapporti di due diligence di sostenibilità che si appaierebbero alla due diligence finanziaria) in modo da analizzarne il rischio finanziario di origine ambientale e sociale e basino su ciò la decisione di investimento.
La debolezza di questo approccio è che non è chiaro se tali investitori siano veramente interessati ad appurare le condotte sostenibili o meno delle imprese e a considerarne i rischi ambientali e sociali associati, oppure siano semplicemente interessati a evitare di investire in imprese che siano già incappate (o stiano per farlo) in crisi e scandali che rappresentino già un costo atteso e ne abbiano ridotto (o minaccino di ridurre) il valore patrimoniale. Ma siano invece disposti a tollerare alti livelli di non conformità agli standard ESG finché il titolo resta redditizio. Nonché, per mantenere la redditività del titolo, accettare di buon grado rapporti di due diligence poco penetranti che di fatto permettono di nascondere nella catena di fornitura esternalizzata le maggiori violazioni dei diritti umani (condizioni di lavoro, incidenti, salari, assenza di rappresentanza sindacale) o delle politiche prevenzione/adattamento al cambiamento climatico. È ovvio che in tal caso il greenwashing- o il social washing quando si tratti delle condizioni di lavoro e delle disuguaglianze- sia la strategia più conveniente: essa accontenta l’impresa e l’operatore finanziario (poiché mantiene elevato il valore del titolo).
L’unico modo di garantire che la strategia funzioni è che gli standard di rendicontazione e di due diligence costringano a dichiarare informazioni effettivamente rilevanti (non solo in materia ambientale ma sociale e di governance – in particolare di governance inclusiva degli stakeholder) e poi da qualche parte vi siano stakeholder che abbiano un interesse non strumentale ma intrinseco al rispetto di elevati standard di sostenibilità, e che siano interessati a influenzare la reputazione dell’impresa (come in effetti prevedeva la CS3D). E che vi siano fondi effettivamente intenzionati a basare le loro decisioni di investimento sui reali profili di sostenibilità delle imprese, e quindi a influire sul loro valore (comprando e vendendo) proprio per queste buone ragioni indipendentemente dalla redditività.
È chiaro che questo è il compito di un sotto-segmento minoritario (importante ma pur sempre tale) della finanza, detta sostenibile (in passato “finanza etica”). Più in generale il problema è come attivare questi stakeholder con interesse non strumentale per la sostenibilità (ma sostanziale poiché si identificano con gli scopi e valori in questione).
La seconda strategia risponde a questa domanda. Il secondo approccio infatti considera l’approvazione delle direttive in materia di adozione di standard di rendicontazione e soprattutto quella sui doveri di due diligence come parte di un accordo collettivo su principi, cui si attribuisce valore a sé (non perché sotto certe condizioni possono influire sul valore monetario di un titolo) – quello che potremmo chiamare il contratto sociale europeo sull’impresa.
L’accordo è frutto di un modello mentale normativo ampiamente condiviso di impresa, intesa come istituzione che genera e distribuisce valore verso molteplici stakeholder e che ha conseguenze ambientali e sociali più generali (in termini di cambiamento climatico e disuguaglianze economiche), per le quali ha una responsabilità sociale e ambientale che si riflette nei doveri degli amministratori. Per questo essa deve render conto delle proprie azioni e conseguenze in termini di parametri di sostenibilità e deve svolgere attività di due diligence in modo da prevedere e organizzarsi per prevenire, eliminare, ridurre e minimizzare i rischi di violazione dei diritti umani e delle convenzioni sul clima, nonché risarcire il danno e interrompere le condotte nocive. E far tutto ciò con il coinvolgimento degli stakeholder relativamente a quanto accade sia all’interno dell’impresa principale, sia nella catena di fornitura (effetto di esternalizzazione).
Un accordo di questa natura coinvolge le istituzioni pubbliche, la cittadinanza, i consumatori e le persone lavoratrici le imprese e le organizzazioni degli stakeholder (ad es. i sindacati, le associazioni ambientaliste), nonché le agenzie di rating e gli operatori finanziari, che non operano in un vacuum sociale.
Esso si forma attraverso la lenta emersione di un modello mentale di impresa europea (la cui prima formulazione data ormai un 25ennio dall’inizio dell’impegno europeo sulla corporate social responsibility) mediante azioni ed elaborazioni che inizialmente prendono avvio nella sfera della volontarietà, autoregolazione concordata e soft law e poi si avvale della deliberazione su norme cogenti (come la CSRD e la CS3D) per estendere la sua ampiezza e coinvolgimento, la capacità di focalizzare aspettative e coordinare i comportamenti verso un nuovo equilibrio, e certamente anche per vincere le resistenze e le condotte opportunistiche. Ciò che può essere razionalizzato come l’emergere di un nuovo contratto sociale europeo sull’impresa sostenibile (prima: socialmente responsabile).
L’accordo si basa su principi e influisce sulle aspettative reciproche nel senso che ci si aspetta normalmente che un interlocutore “normale” vi adempia e vi debba adempiere, e ciò a sua volta attiva preferenze, non strumentali ma intrinseche, a favore dell’osservanza delle norme stesse. Ciò accade in base al meccanismo cognitivo secondo cui, almeno di default, un accordo ampiamente condiviso induce aspettative di conformità e sostiene la formazione di preferenze favorevoli a che ciascuno faccia la propria parte nel mettere in atto le norme.
In particolare, influisce sulla disponibilità da parte degli stakeholder, dei consumatori, dei fornitori, dei lavoratori e delle lavoratrici ma anche degli investitori, a premiare o punire le imprese che si conformano (o no) alle direttive anche in misura superiore a quella derivante dal mero calcolo del vantaggio /svantaggio materiale. Ovvero influisce sulla disponibilità a investire capitali, a comprare prodotti, a offrire collaborazione qualificata condizionalmente alla osservanza dei valori su cui si fa rendicontazione e si basa la due diligence di sostenibilità – poiché cooperare o rifiutare cooperazione con imprese che adempiono o non adempiono alle richieste derivanti dai principi soddisfa in sé preferenze per la conformità, che non sono strumentali ad un beneficio materiale o finanziario.
III. Il contributo della BCE
La BCE, nelle sue osservazioni critiche alle recenti decisioni della Commissione UE di riformare riduttivamente le due direttive precedenti sulla rendicontazione di sostenibilità e sustainability due diligence ondeggia, tra queste due strategie. Ma ad un certo punto fa una chiara scelta a favore del secondo modello.
Non si limita a dire che il mercato finanziario può avvalersi di abbondanti e accurate informazioni di sostenibilità per apprezzare i rischi finanziari delle imprese. Dichiara invece che la BCE ritiene di avere bisogno di abbondanti ed accurate informazioni in materia di sostenibilità delle imprese e in materia di adozione di piani si transizione green giusta, che richiedono due diligence, proprio per svolgere le sue funzioni di tutela dell’interesse pubblico, cioè valutare l’impatto dei comportamenti cumulativi delle imprese in materia di crisi climatica e sostenibilità socio-ambientale sulla situazione economica e sulla stabilità finanziaria complessiva, e per formulare proposte di appropriate politica economica.
Che le imprese adempiano ai loro doveri di rendicontazione in modo veritiero, in numero ampio e rappresentativo della realtà effettiva, serve all’interesse pubblico. Attuare i doveri di rendicontazione e due diligence serve alla protezione dell’interesse economico generale dell’Unione europea come rappresentato dalle funzioni delle BCE, e gli stakeholder chiamati a vigilare o interagire con le imprese, nonché gli investitori che valutano l’informazione prodotta dalle imprese, dovrebbero tener conto del contributo dato dall’impresa a questo interesse generale, oltre che dell’equo bilanciamento tra gli interessi degli stakeholder nei singoli casi.
Entrambi questi interessi (quello aggregato e quello del singolo caso) eccedono l’interesse strumentale per l’effetto che l’informazione (manipolabile dal greenwashing) può avere sulla valutazione del titolo. E rendono più efficaci gli incentivi e le motivazioni che spingono gli stakeholder ad interagire (premiare o punire) con l’impresa, sia che questa abbia interiorizzato tali motivazioni, oppure semplicemente guardi a come l’informazione può influire sul suo tornaconto. Perché ovviamente in entrambi i modelli suddetti l’idea è che le direttive introducono obblighi di rendicontazione e autorganizzazione preventiva (due diligence) che funzionano – in parte attraverso il mercato e in parte attraverso l’opinione pubblica e i meccanismi di approvazione/disapprovazione sociale – con l’indurre motivazioni e incentivi ad agire nel gioco tra impresa e stakeholder, incentivi e motivazioni (non necessariamente egoistici) che sono in parte endogeni e autonomi, e non meri effetti di comando esterno.
Viene da aggiungere che l’affermazione di questo interesse sostanziale potrebbe esser sostenuto più efficacemente se la Commissione non avesse invece chiaramente virato verso una interpretazione riduttiva delle direttive. Con le due decisioni di revisione ne ha infatti ridotto la portata sotto molti punti di vista, accettando la rappresentazione secondo cui la loro attuazione andrebbe valutata in termini di “costi” che ridurrebbero la disposizione alla competitività (piano Draghi) – come se fosse accettabile una competitività basata sulla violazione dei diritti umani e sull’aggravamento della crisi climatica.
Ciò non aiuta a generare e mantenere quell’accordo collettivo su principi che sviluppa l’adesione volontaria. Piuttosto enfatizza l’immagine di costosi inutili adempimenti, di cui non si vede la ratio ma solo l’onere. Un autogol per la Commissione, che in questo campo come in altri cede alle domande più regressive pur di tenersi a galla. Sarebbe piuttosto da auspicare – anche se c’è poco da sperare – che le osservazioni critiche della BCE vengano ascoltate.






