Un commento sulle relazioni dell’Europa con il sud globale. Un approfondimento dal terzo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”
Visto che il disimpegno statunitense dal multilateralismo ormai non dovrebbe più sorprendere, l’Europa cosa deve fare? Di questo abbiamo discusso durante l’ottava edizione a Bologna del Festival del Presente organizzato da Pandora Rivista, quest’anno intitolato “Forme del Caos. Disordine, complessità, trasformazione”.
Al momento, l’Europa sembra esclusivamente cercare di contenere i danni causati dal vuoto di potere esistente nel campo della cooperazione, senza una vera e propria strategia da attuare. Tuttavia, già a luglio, in occasione della conferenza sul finanziamento dello sviluppo a Siviglia, diverse voci hanno spronato l’Unione Europea a non attendere e a iniziare già a costruire una cooperazione più inclusiva, che transiti verso un nuovo multilateralismo e rompa con l’assunto che l’assenza di una potenza-guida implichi necessariamente il caos.
Questa prospettiva è al centro della cosiddetta “Plataforma de Sevilla” proposta dal governo spagnolo. Si fonda sull’idea di un multilateralismo sperimentale, aperto e adattivo e mira a nuove coalizioni di attori che possano posizionarsi come riformatori della cooperazione allo sviluppo. Non si tratta di coltivare l’irrealistica ambizione di ricostruire ora, da zero, interamente e al tavolino un nuovo sistema universale, quanto di sperimentare iniziative concrete con coalizioni di attori a geometrie variabili per monitorare gli impatti e ridefinirne nel tempo il quadro generale.
Da cosa iniziare? Per costruire e ricostruire alleanze strategiche, l’Unione Europea può ripartire da quanto chiedono i Paesi del Sud Globale. Gli ultimi decenni hanno visto, infatti, trasformazioni strutturali di grande ampiezza che in molti casi i cosiddetti paesi “occidentali” hanno tardato a percepire nella giusta maniera. La visione “occidentale” e il suo supposto ruolo-guida dello sviluppo globale sono stati e sono cosìi’ messi in discussione. L’Europa deve dunque cominciare a giocare una partita diversa se è ancora interessata ad essere parte importante di alleanze future, basate su interessi condivisi.
Riformare la governance multilaterale. Le istituzioni nate a Bretton Woods operano ancora secondo dinamiche escludenti. Il Sud insiste sulla necessità di riequilibrare il diritto di voto nelle istituzioni finanziarie internazionali e di superare la dicotomia donatori-beneficiari.
Ripensare i paradigmi dello sviluppo. Dopo decenni di ortodossie fiscali che sono lontane dall’avere consegnato i risultati promessi, la questione cruciale non è imporre stabilità finanziaria, ma aiutare a costruire strategie di sviluppo e ampliare le capacità pubbliche necessarie a sostenerle.
Cambiare l’architettura finanziaria globale. Il Sud chiede riforme concrete per affrontare una crisi debitoria sistemica: ristrutturazioni più efficaci, contrasto ai flussi illeciti, strumenti
innovativi come gli swap debito-investimento, strumenti finanziari che consentono a un governo di ristrutturare parte del proprio debito esterno, convertendo il suo rimborso in impegni verso obiettivi di sviluppo. L’attuale sistema penalizza i paesi vulnerabili con rating pro-ciclici, attraverso cioè una valutazione della loro affidabilità finanziaria che accentua le fasi del ciclo economico – spinge dunque verso una crescita nei periodi favorevoli e aggrava le recessioni nei momenti difficili, nonché attraverso regole che disincentivano investimenti di lungo periodo, costringendoli a scegliere tra sostenibilità e solvenza.
E l’Europa in tutto questo? Può illudersi che competitività e sicurezza siano raggiungibili entro i propri confini, accettando la subalternità verso le grandi potenze quando si tratta di relazioni internazionali. Oppure può aprirsi verso il Sud, ridefinendo il suo impegno internazionale non come il “donatore” principale (che l’Europa èe’ giàa’ in termini di aiuti) ma come partner strategico con il Sud. Se non vuole ridursi a spettatrice subordinata, deve rafforzare autonomia e alleanze, entrambe intimamente legate.
In questo secondo caso, l’Europa deve sperimentare una nuova forma di azione multilaterale per dimostrare che una cooperazione inclusiva e flessibile è possibile, fondata su co-progettazione, scambio orizzontale di conoscenze e monitoraggio congiunto. Deve confrontarsi con le richieste del Sud e soprattutto deve dimostrare attivamente che è pronta a trasformare non solo il modo in cui finanzia, ma anche il modo in cui ascolta e decide. Inoltre, deve sostenere i paesi del Sud nelle crisi del debito affinché’ possano intraprendere politiche sostenibili. L’obiettivo è quello di sostenere, nel Sud come in Europa, traiettorie di sviluppo diversificate e accesso equo a tecnologie verdi e digitali per transizioni giuste.
In questo contesto, il progetto l’europeo Global Gateway sarà uno dei banchi di prova più importanti. Nato nel 2021 per mobilitare 300 miliardi di euro entro il 2027, punta a investimenti al Sud ad alto impatto, principalmente in infrastrutture. Ora serve un salto di qualità: concepito unilateralmente, deve trasformarsi in una piattaforma per decidere insieme prioritàa’ e criteri di valutazione e di rischio dei progetti. Come proposto in un policy brief per la FEPS, la Fondazione per gli Studi Progressisti Europei, think tank del gruppo dei Socialisti e dei Democratici, si tratta di creare una piattaforma di dialogo permanente co-guidata con partner del Sud per co-sviluppare regole, concordare meccanismi robusti di certificazione e valutazione e legare i contributi pubblici a risultati verificabili.
Insomma, se l’Unione Europea vuole navigare questa congiuntura e riconoscere che il suo futuro è legato alla capacità di cooperare con i paesi del Sud, deve completare la sua transizione strategica e investire diversamente. L’azione esterna non è un lusso: è un investimento strategico.








