Un commento sulla trasparenza e la governance europea. Un approfondimento dal terzo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”
La “Riforma” democratica nei Trattati. Ancora oggi, chiedere trasparenza in una organizzazione dove interagiscono quotidianamente migliaia di burocrati, politici e diplomatici come l’Unione Europea può sembrare come parlare di corda in casa dell’impiccato. Trovare, infatti, compromessi alla luce del sole fra ventisette paesi con storie, tradizioni giuridiche e culture così diverse non è cosa facile come sanno gli ambasciatori che ogni settimana devono filtrare nelle riunioni del Comitato di rappresentanti permanenti (COREPER) centinaia di compromessi sui temi più diversi.
Eppure alla trasparenza non vi è alternativa se l’Unione Europea intende rispettare la propria scelta, ormai da decenni, di diventare un soggetto politico e non solo economico. Così, dopo che nel 1992 la Danimarca ha bocciato con un referendum l’allargamento delle competenze previste per l’UE dal trattato di Maastricht, le istituzioni si sono impegnate a promuovere una maggiore trasparenza come premessa per la costruzione di una vera e propria democrazia sovranazionale.
Così Maastricht (1993), Amsterdam (1997) Nizza (2000) e Lisbona (2007) sono state altrettante tappe di avvicinamento a questo obiettivo che sembrava raggiunto proprio con il Trattato di Lisbona secondo il quale, ormai, il “funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa” (art.10.1 TUE). Lo stesso Trattato promuove inoltre la democrazia partecipativa quando prevede che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini” (art.10.3) e quando promuove un dialogo costante con la società civile (art.11 TUE). Sempre a Lisbona si è deciso che la trasparenza è essenziale per una nuova governance (art.15.1 TFUE) che è ormai inerente al processo legislativo in quanto ormai dibattiti e voti devono essere pubblici non solo in Parlamento ma anche nel Consiglio (art.15.2 TFUE). Il Trattato prevede anche che “ciascuna istituzione, organo od organismo (dell’UE) garantisce la trasparenza dei suoi lavori e definisce nel proprio regolamento interno disposizioni specifiche riguardanti l’accesso ai propri documenti” perché la regola è la trasparenza ed eccezioni e limiti a questa regola possono essere definiti solo per legge (art. 15.3 TFUE) anche perché il diritto di accesso dei cittadini non è più tanto un diritto individuale ma un diritto fondamentale da promuovere e rispettare ai sensi degli articoli 41, 42, 51 e 52 della Carta.
La “contro-riforma” promossa dopo Lisbona dalle forze politiche conservatrici.
Tutti questi principi sono stati ratificati dagli Stati membri meno di vent’anni fa, ma se guardiamo a quanto è successo da allora non solo non sono stati messi in opera ma sono stati sistematicamente disattesi e ciò per l’emergere di strategie politiche che si presentano come conservatrici ma che sono, in realtà, reazionarie e che stanno “Orbanizzando” l’Unione europea anche in altri settori come la protezione dei dati, la migrazione e le politiche antidiscriminatorie.
Sul piano istituzionale, nel corso delle due ultime legislature il processo di svuotamento dei Trattati e della Carta è stato avviato prima in Consiglio per poi coinvolgere la Commissione e mettere nell’angolo il Parlamento anche grazie al sostegno del Partito Popolare Europeo che essendo al governo nella maggioranza degli Stati europei non ha alcun interesse in una assemblea che affermi la propria autonomia rendendo, magari, così più arduo raggiungere un compromesso in sede di Consiglio. La strategia promossa dal PPE di auto-emarginazione del Parlamento per non disturbare il “manovratore” Consigliare si è confermata in questa legislatura ed è la riprova, seppure paradossale, che, ormai anche nell’Unione Europea la (cattiva) politica può vanificare la stessa dialettica istituzionale tra Parlamento e Consiglio che è alla base della legittimità dell’Unione il cui “funzionamento” si basa sulla democrazia rappresentativa (art.10.1 TUE).
Fare della confidenzialità la regola e sostituire la propaganda all’obbligo di trasparenza
Quanto successo in materia di trasparenza e accesso ai documenti nel corso degli ultimi venticinque anni è la conferma palmare del processo politico descritto. Nel 2001 in occasione della adozione delle prime norme in materia di accesso ai documenti (Regolamento 1049/01) il Parlamento europeo era stato determinante nel riformare la proposta della Commissione, prevedere una maggiore trasparenza legislativa (art.12), imporre la registrazione sistematica dei documenti interni delle istituzioni (art.11) e, perfino, inquadrare legalmente il trattamento delle informazioni “classificate” che, all’epoca, il Consiglio voleva scambiare con la NATO (art.9). Queste innovazioni trovavano una eco già tre anni dopo a livello degli stessi Trattati (come ricordato sopra). Ci si sarebbe, quindi, potuti aspettare una riforma non solo del modo di agire, ma della cultura stessa dell’amministrazione UE.
Niente di tutto questo, dopo un primo coraggioso tentativo del Parlamento nel 2011 di riformare il Regolamento 1049/01 e due richieste formali di inquadrare legislativamente anche l’attività amministrativa dell’Unione Europea (relazioni Berlinguer del 2013 e Hautala del 2016), -sia il Consiglio che la Commissione hanno fatto orecchie da mercante. Anzi, quest’ultima proprio quest’anno ha ritirato la proposta di riforma del regolamento 1049/01 ed ha invece proposto un progetto di regolamento sulla sicurezza delle informazioni (INFOSEC) che va in direzione opposta e che potrebbe permettere a ogni funzionario delle istituzioni, organismi e agenzie di “proteggere” informazioni e documenti interni da possibili minacce che, a suo parere, possano mettere in pericolo in maggiore o minore misura gli interessi dell’Unione.
L’assurdità della disposizione è tanto più evidente quando si pensi che già oggi tutti i funzionari dell’UE sono tenuti dal Trattato stesso al segreto professionale (art 339 TFUE) e al rispetto dello Statuto (art.336 TFUE), ma, soprattutto, per il fatto che la base giuridica scelta dalla Commissione per il progetto di Regolamento INFOSEC è l’art. 298 TFUE che prevede, invece, una amministrazione aperta, indipendente e efficiente.
Ma il lapsus che mostra in modo più evidente quale sia la cultura amministrativa della Commissione sono le disposizioni che richiedono che vengano classificati come pubblici solo i documenti che l’amministrazione decide che siano tali. Ora, se la regola è la trasparenza, eventuali decisioni delle istituzioni dovrebbero riguardare le eccezioni e si dovrebbe trattare di decisioni motivate così da permettere eventuali ricorsi di fronte alla stessa amministrazione e, se del caso al giudice europeo. Il progetto di regolamento crea anche una categoria di documenti descritta con un vero e proprio ossimoro: i documenti che sono al tempo stesso “sensibili” (quindi esclusi dall’accesso) ma che non sono “classificati”.
Si accorgerà il Parlamento europeo dello stravolgimento che il progetto INFOSEC fa del Trattato, della Carta e dello stesso regolamento 1049/01?
Non sembra, visto che su proposta della relatrice del PPE la commissione LIBE- ha definito un calendario accelerato di esame della proposta e ciò senza alcuna valutazione del suo impatto sugli oltre 60 enti fra istituzioni, agenzie e organismi che dovranno metterla in opera, senza dialogo preventivo con l’altro co-legislatore (che pure ha una esperienza ventennale in materia di gestione delle informazioni classificate) e senza nessuna verifica dei contenuti con il Mediatore Europeo (che dovrebbe garantire il rispetto dei principi di buona amministrazione) o con la stessa Agenzia dei Diritti fondamentali (per quanto riguarda la portata dei limiti ammissibili ai diritti fondamentali).
Per fortuna, c’è un giudice …in Lussemburgo
Certo, in caso di cattiva legislazione da parte UE resta la possibilità (peraltro tutt’altro che semplice) di ricorrere ai Giudici di Lussemburgo che sono già da anni subissati di ricorsi in materia di trasparenza e accesso ai documenti (l’ultimo in ordine di tempo è il caso PFIZER in cui la Commissione è stata condannata per non aver saputo giustificare la “scomparsa” dei messaggi tra la Presidente Von Der Leyen e il Presidente di Pfizer ai tempi della crisi del Covid). Tanta pervicacia nel perseguire pratiche ripetutamente condannate dalla Corte si spiega solo con il fatto che le istituzioni danno ormai per scontato di essere nel torto, tentano con il progetto di Regolamento INFOSEC di offrire una base legale alle proprie prassi arbitrarie e accettano il rischio di finire nuovamente in Corte pur di poter continuare a procedere come prima del Trattato di Maastricht quando l’accesso ai documenti era una concessione del “Sovrano”. Certo, Lisbona ha disegnato tutto un altro contesto, ma, evidentemente vale anche in Europa la massima che, nel Gattopardo, Tancredi indirizza al Principe di Salina «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.





