Un commento sui dazi americani e le loro ripercussioni sull’economia europea. Un approfondimento dal terzo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”
La guerra commerciale scatenata dagli Stati Uniti ha destabilizzato l’economia mondiale e inferto un colpo durissimo al già traballante sistema commerciale multilaterale, amministrato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).
Le reali motivazioni e gli effetti di questo attacco sono al centro di un dibattito intenso [1] e riguardano sei aspetti:
1) Entrate fiscali: il forte aumento dei dazi doganali applicati dagli Stati Uniti è stato presentato come uno strumento per accrescere le entrate nel bilancio pubblico, riducendone il disavanzo. Come è noto, quando i dazi sono introdotti da un paese di grandi dimensioni economiche, l’onere che ne deriva viene pagato solo in parte dai consumatori e dalle imprese che acquistano i beni importati, perché i fornitori esteri possono scegliere di ridurre i prezzi, per cercare di limitare la caduta delle esportazioni. Tuttavia, se una parte considerevole degli acquirenti, pur di continuare a ottenere i prodotti importati, è disponibile a pagare un prezzo più alto, è possibile che l’onere del dazio si scarichi quasi completamente su di loro. Dai primi dati disponibili, sembra che ciò sia effettivamente accaduto, dato che i dazi hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti importati, generando impulsi inflazionistici.
2) Protezione sociale: un altro argomento usato per giustificare l’aumento dei dazi è l’intenzione di proteggere le “vittime della globalizzazione”, ovvero le persone che lavorano nei settori in competizione con le importazioni, sostenendone l’occupazione e i salari. L’entità di questo effetto dipende da quanto i beni importati vengano sostituiti con quelli locali, il che dipende sia dall’elasticità della domanda ai prezzi, sia dalla possibilità effettiva di aumentare la produzione locale. Non è ancora chiaro se questo effetto si stia manifestando, ma in ogni caso il conseguente incremento della domanda di lavoro (tutt’altro che scontato nel contesto della trasformazione digitale dei processi produttivi) riguarderebbe soltanto una parte dell’industria manifatturiera statunitense, mentre l’aumento del prezzo dei beni importati colpisce il potere d’acquisto di tutta la popolazione, anche di chi lavora nel settore dei servizi, che ha un peso molto superiore alla manifattura.
3) Promozione di settori “strategici”: a partire dall’antico argomento del sostegno alle “industrie nascenti”, il protezionismo è stato spesso giustificato come una strategia per favorire l’industrializzazione dei sistemi economici, o la crescita di specifici settori ritenuti strategici. Ancora oggi c’è chi sostiene che i paesi ricchi, dopo aver costruito il proprio sviluppo proteggendosi dalla concorrenza estera, vorrebbero impedire ai paesi in via di sviluppo di fare altrettanto, imponendo strategie di liberalizzazione commerciale che sarebbero inadatte alle loro caratteristiche di partenza [2]. Il problema è che non sempre questo tipo di protezione ottiene gli effetti attesi. In particolare, se i dazi doganali sugli input intermedi usati in un settore sono più alti di quelli applicati sui beni finali, il risultato è un aumento dei costi che frena la crescita della produzione. Questo rischio è particolarmente forte nelle reti produttive internazionali che si sono sviluppate durante la fase più espansiva della globalizzazione e spiega perché diverse imprese statunitensi abbiano chiesto e ottenuto deroghe all’applicazione dei dazi.
4) Attrazione di investimenti esteri: in teoria l’introduzione di dazi elevati in un certo settore può spingere le imprese fornitrici estere a cambiare le proprie strategie di accesso al mercato, rinunciando a esportare e facendo investimenti per aggirare i dazi. Un argomento simile potrebbe applicarsi anche alle multinazionali statunitensi, che potrebbero essere indotte a riportare in patria (reshoring) attività produttive collocate all’estero. I dati preliminari disponibili non mostrano segnali in questa direzione. Anzi, gli investimenti esteri negli Stati Uniti sembrano scoraggiati dalla grande instabilità del contesto normativo.
5) Equilibrio esterno: uno degli argomenti più usati per tentare di giustificare l’offensiva tariffaria scatenata dagli Stati Uniti è proprio l’ambizione di correggere in questo modo il forte disavanzo del conto corrente di bilancia dei pagamenti, evitando un’ulteriore accumulazione di debito estero. L’argomento appare privo di fondamento, perché l’aumento del disavanzo corrente degli Stati Uniti è stato finora alimentato da una crescita della domanda aggregata superiore a quella della produzione e potrebbe essere frenato soltanto con manovre restrittive di politica macroeconomica [3]. Nemmeno il deprezzamento del dollaro, che si è verificato negli ultimi mesi, sembra in grado di ridurre in misura sostanziale il disavanzo corrente.
6) Obiettivi non economici: molto spesso la protezione offerta dai governi a un certo settore è stata giustificata facendo riferimento a obiettivi sociali di natura non economica. Questo vale, ad esempio, per l’agricoltura, la cui natura “multi-funzionale” è stata invocata per giustificare le barriere commerciali introdotte dalle politiche europee, oppure per il settore audiovisivo, messo al riparo dalla concorrenza estera in nome della difesa delle identità culturali dei diversi paesi. E in realtà anche la svolta protezionistica affermatasi negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, con l’erogazione di pesanti sussidi alle industrie locali, ha motivazioni politiche più che economiche: l’idea che il primato della superpotenza americana sia messo in pericolo dalle presunte pratiche concorrenziali sleali della Cina, o dalla volontà europea di adottare standard produttivi più rigorosi per affrontare il cambiamento climatico.
È difficile prevedere quali saranno gli effetti complessivi dei meccanismi appena descritti, anche perché bisognerebbe tener conto delle reazioni dei paesi colpiti dall’attacco statunitense. Resta il fatto che l’aumento dei dazi appare in palese contrasto con le regole del sistema commerciale multilaterale e in particolare con il principio di non discriminazione tra i paesi fornitori, che ne è l’architrave principale. L’OMC già era stata sabotata dagli Stati Uniti nella sua funzione più preziosa, che è il meccanismo di risoluzione delle controversie, posto a garanzia soprattutto dei paesi più deboli. Ora, a 30 anni dalla sua istituzione, appare del tutto paralizzata di fronte alla guerra commerciale.
Quale dovrebbe essere la risposta europea? Ne parla in dettaglio Luca Fossati, nell’intervista pubblicata su queste pagine. Le questioni più importanti da affrontare non sono quelle dei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti, che anzi hanno forse ricevuto finora un’attenzione eccessiva, utile soltanto a rinfocolare il gioco d’azzardo delle minacce e delle ritorsioni. Ciò che serve davvero, in una prospettiva di lungo termine sul ruolo dell’Unione Europea nel mondo, è un ripensamento della sua strategia commerciale complessiva, ispirato ai principi del multilateralismo e ai valori della cooperazione internazionale.
In concreto, questo richiede la ricerca di un accordo con tutti i paesi disponibili, a partire dalle vittime dell’aggressione statunitense, per riformare le regole di funzionamento dell’OMC, facendola uscire dalla crisi in cui si trascina da molto tempo. Ciò riguarda sia il tentativo già in corso di istituire un meccanismo di soluzione delle controversie commerciali alternativo a quello esistente, paralizzato dal veto degli Stati Uniti alla nomina dei giudici d’appello, sia la ripresa dei negoziati per raggiungere accordi plurilaterali sulle principali questioni in sospeso. Occorre contestualmente difendere il sistema commerciale multilaterale non soltanto dagli attacchi degli Stati Uniti, ma anche dalle ritorsioni degli altri paesi e da misure come le restrizioni cinesi sulle esportazioni di materie prime “critiche”, che appaiono anch’esse una violazione delle regole in vigore.
Nello stesso tempo, la Commissione dovrebbe continuare a promuovere accordi bilaterali di partenariato, come quello recentemente concluso con il Mercosur, che prevedano non soltanto la riduzione preferenziale delle barriere agli scambi, ma anche l’introduzione di regole a tutela della sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.
Questa integrazione è in realtà l’idea principale che dovrebbe guidare la strategia complessiva di politica commerciale dell’Unione Europea. In fondo, si tratta di tornare alle premesse dell’Accordo di Marrakech, che nel 1994 pose le basi per la nascita dell’OMC. Il suo preambolo conteneva un riferimento esplicito all’obiettivo dello sviluppo sostenibile, che è stato disatteso nei negoziati successivi, dedicati esclusivamente alla liberalizzazione degli scambi, nel presupposto che le politiche di sviluppo dovessero restare di stretta pertinenza degli Stati nazionali. Viceversa, è ormai sempre più evidente che le grandi sfide fronteggiate dalla comunità internazionale possono essere affrontate efficacemente soltanto con una condivisione di sovranità all’interno di istituzioni multilaterali più forti, che si assumano democraticamente la responsabilità di coniugare l’apertura dei mercati con la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo [4]. Questa visione comporta, ad esempio, la ricerca di una maggiore coerenza tra le politiche commerciali, la cooperazione internazionale e la regolazione dei flussi migratori.
Il problema principale che oggi ostacola il rinnovamento delle strategie di politica commerciale dell’Unione Europea è la perdita di credibilità esterna della sua visione. Troppo spesso l’Unione Europea è apparsa appiattita su una difesa astratta dei presunti valori della civiltà occidentale, che è stata smentita dalle scelte concrete operate nelle relazioni internazionali, come è apparso con grande evidenza nell’incapacità di contrastare con la necessaria fermezza il genocidio in Palestina.
Anche nella gestione degli accordi commerciali preferenziali è evidente la difficoltà di sottrarli al rischio che vengano percepiti come strumenti orientati prevalentemente alla difesa degli interessi europei, a scapito di quelli dei paesi partner. Da un lato, le regole a tutela dell’ambiente e dei diritti del lavoro, che sono state recentemente negoziate per questi accordi, rischiano di essere ancora considerate come barriere per proteggere i mercati europei, ostacolando il successo delle trattative. Dall’altro, una volta che gli accordi sono stati conclusi, come nel caso di quello con il Mercosur, le resistenze dei gruppi di interesse europei che se ne sentono danneggiati ne ostacolano la ratifica, alimentando la diffidenza dei paesi partner.
Queste difficoltà sono un altro segno dei limiti dell’integrazione europea anche in ambiti, come quello della politica commerciale esterna, che dovrebbero essere di esclusiva competenza delle istituzioni comuni. In un’epoca storica caratterizzata dall’ascesa devastante del nazionalismo, diventa sempre più difficile costruire e affermare una visione delle relazioni internazionali ispirata ai valori della pace e della cooperazione tra i popoli su basi di rispetto reciproco. Né aiuta, in questo contesto, il ritorno a una visione delle relazioni economiche internazionali ispirata alla retorica della competitività tra i paesi (l’Europa contro la Cina e contro gli Stati Uniti), che oltre trent’anni fa Paul Krugman aveva già denunciato come un’espressione priva di fondamento analitico, quando si applica alle economie nazionali, e come un’ossessione sbagliata e pericolosa [5].
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[1] Cfr., tra gli altri, R. Baldwin, The Great Trade Hack: How Trump’s Trade War Fails and the World Moves on, CEPR Press, 2025.
[2] Cfr. H.J. Chang, Kicking Away the Ladder – Development Strategy in Historical Perspective, Anthem Press, 2002.
[3] Cfr. J. Sachs, Trump’s Absurd Trade Policies Will Impoverish Americans and Harm the World, 2025 https://www.commondreams.org/opinion/trump-tariffs
[4] Cfr. Villars Framework for a Sustainable Global Trade System, Version 2, January 2024 https://remakingtradeproject.org/villars-framework
[5] Cfr. P. Krugman, “Competitiveness: A dangerous obsession”, Foreign Affairs, 1994, vol. 73, n. 2.








