Un commento sulle alleanze di università europee (approfondimento al secondo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”)
La premessa
Molti segni indicano che l’idea d’integrazione europea sognata dalle generazioni del secondo dopoguerra sta scivolando verso un futuro incerto, increspato da un orribile avverbio di tempo: mai. Eppure, prima di cedere al torpore di un pessimismo inerte, si può ancora provare ad aggrapparci a quei (pochi) segnali che vanno in controtendenza.
Uno di questi, sorprendentemente vivace, è l’espansione delle “Alleanze di Università Europee”.
Nate dall’idea di Emmanuel Macron in occasione di un memorabile discorso alla Sorbona, il 26 settembre 2017, quando il presidente francese, che sarà anche incline alle gaffes, ma resta una delle poche menti strategiche al governo di un grande paese, propose “la creazione di università europee, che saranno reti di università di diversi paesi d’Europa ed elaboreranno percorsi formativi nei quali ciascuno dei loro studenti studierà all’estero e seguirà corsi in almeno due lingue. Università europee che saranno anche luoghi d’innovazione pedagogica e di ricerca d’eccellenza. Dobbiamo darci l’obiettivo, entro il 2024, di crearne almeno una ventina. Ma fino dal prossimo anno accademico dobbiamo iniziare a costruire le prime, con dei veri semestri europei e dei veri diplomi europei.”.
Oggi, a metà 2025, possiamo dire che, almeno nei numeri, l’obiettivo è stato largamente superato. A partire dal 2019, la Commissione Europea ha lanciato, nell’ambito del Programma Erasmus+, la European Universities Initiative, con bandi che hanno portato alla selezione e al finanziamento di 65 “Alleanze” comprendenti oltre 570 istituzioni universitarie e più di 1700 partner associati (ONG, amministrazioni locali, imprese…) appartenenti a 35 paesi (tutti i 27 dell’Unione, più altri). Una vera rete, continentale e densa. Ma allora, va tutto bene? Non proprio.
Uscire dalla logica dei bandi
Nella recente Comunicazione su “The Union of Skills”, la Commissaria Mînzatu ha inserito la proposta di conferire personalità giuridica alle Alleanze. Un’ipotesi da giudicare positivamente, perché darebbe loro maggiore visibilità e ‘potere contrattuale’ nei confronti dei decisori politici nazionali. Tuttavia, c’è un nodo strutturale da sciogliere: le Alleanze, oggi, sono figlie della logica del bando competitivo, selezionate e finanziate dalla Commissione. Se si arriverà alla definizione di uno stato giuridico, occorrerà aprire le porte a tutte le università europee che vorranno costituirsi in Alleanza, purché rispettino criteri trasparenti e rigorosi, magari mutuati dai bandi precedenti. Il finanziamento comunitario potrebbe allora sostenere i costi organizzativi, analogamente a quanto avviene oggi per le azioni COST (European Cooperation in Science and Technology), lasciando alle Alleanze – come tali o come sottoinsiemi ‘a geometria variabile’ – il compito di cercare risorse per specifiche attività formative e di ricerca, partecipando a progetti tematici o territoriali, promossi da istituzioni pubbliche (locali, nazionali, europee) o da privati.
La ‘funzione Erasmus’ non basta più
Ad oggi, le Alleanze hanno ampliato la mobilità: non più solo scambi bilaterali tra due atenei (come avviene dell’Erasmus ‘classico’), ma mobilità multilaterale, tra le sedi dell’Alleanza. Ottimo, certo, ma anche troppo poco. Il sogno di Macron — quello di fare delle Alleanze dei veri hub di innovazione pedagogica e attori di primo piano nella scena globale della ricerca — appare ancora in larga parte disatteso.
Forse è tempo che ogni Alleanza si dia un obiettivo chiaro e di forte impatto sociale – un Sustainable Development Goal, ad esempio, o una parte di esso – da raggiungere mettendo in comune le competenze complementari delle università partner per affrontarlo con ambizione e rigore. Solo così l’Europa potrà sperare di rimanere interlocutore autorevole sulla linea di avanzamento della conoscenza, consapevoli come siamo (o come dovremmo essere) che la frammentazione prodotta da un divisore di 27 unità non ci aiuta a far fronte a questa sfida.
Ripensare le Alleanze e i loro terms of reference — non come “progetti”, ma come pilastri istituzionali dell’Europa del futuro — significa investire nell’Unione che vorremmo, quella che crede ancora nella conoscenza come bene comune, e nella cooperazione come forza costituente.








