Il Piano Draghi non fa bene all’Europa, non ne valorizza i punti di forza, promuove una crescita che trascura la giustizia sociale. Questo il giudizio che emerge dall’estesa analisi critica della strategia del Piano Draghi da parte del Forum Disuguaglianze e Diversità. Come si evince dalle Lettere di Missione ai membri designati della Commissione UE, il Piano è già penetrato profondamente nell’agenda europea. Il ForumDD propone invece di usarlo, prima che sia attuato, per aprire un confronto pubblico, informato e aperto sul futuro dell’Unione
Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha preso sul serio il rapporto The Future of European Competitiveness, noto come Piano Draghi, andando oltre il suo condivisibile appello a un’Europa in stallo e specifiche interessanti proposte. Ne ha esaminato diagnosi, obiettivo e rimedi, producendo un documento dettagliato (““PIANO DRAGHI”: NON CI SIAMO. Diagnosi, obiettivo e rimedi ai raggi X). La conclusione è che se quel Piano dovesse improntare l’azione dell’UE nei prossimi mesi e anni, gli effetti sull’Europa sarebbero negativi. L’urgenza della discussione è rafforzata dal fatto che i contenuti del Piano sono già entrati dentro la macchina istituzionale, politica e amministrativa della Commissione, come si evince dalle Lettere di Missione ai membri designati della Commissione dalla Presidente Ursula von der Leyen.
Il documento è il risultato della collaborazione fra un gruppo di esperti ed esperte del ForumDD e riflette le idee e le proposte del volume “Quale Europa” (Donzelli, 2024), pubblicato dal ForumDD in occasione delle ultime elezioni europee e ora disponibile in e-book anche in inglese.
La strategia del Piano Draghi è portata fuori strada sia dalla scelta degli USA come standard ricorrente di riferimento, senza coglierne debolezze, instabilità economica e recenti evoluzioni, sia dalla parallela disattenzione alle specificità e ai punti di forza dell’Europa. Sul Piano pesa anche il fatto di non assumere il punto di vista delle persone, delle preferenze, delle insicurezze, delle aspirazioni e bisogni di chi consuma, lavora, vive in Europa. Viceversa, la politica industriale dovrebbe promuovere la ricerca di un bilanciamento fra quei punti di vista, le opportunità tecnologiche e il genio imprenditoriale. Manca una valutazione delle convenienze europee nell’attuale, fragile, scenario geo-politico. Pesa, infine, una visione ancillare della dimensione sociale. Nei fatti si accentua la frattura fra economia e società come se questi anni nulla avessero insegnato.
Questi limiti condizionano l’insieme delle proposte del Piano che, fermo restando la validità di singole idee, farebbero male all’Europa: favorendo una concentrazione ulteriore del potere economico e politico, coerente con la de-democratizzazione in atto; accrescendo le disuguaglianze e aggravando la distanza delle istituzioni dell’Unione da bisogni e aspirazioni di cittadini e cittadine; facendo della difesa un volano dello sviluppo, senza attenzione ai gravi effetti di tale scelta; relegando l’UE nei rapporti internazionali in una posizione rigidamente predeterminata e non necessariamente conveniente.
Diagnosi distorta
Il Piano sottolinea giustamente il gap fra UE e USA in termini di ricerca: mentre l’ammontare della spesa pubblica in R&S è pari a 0,7% del PIL in entrambi UE e USA, nell’UE il 90% di tale spesa pubblica in R&S è effettuata a livello nazionale, dunque è frammentata fra gli Stati Membri e la ricerca privata rappresenta l’1,2% del PIL contro il 2,3% in USA, con un divario particolare nel campo della transizione digitale. Ma poi il Piano va fuori strada nell’indicare le cause primarie di questa distanza: le imprese europee sarebbero frenate dalla regolamentazione in campo digitale e da una politica della concorrenza troppo severa; le Università e i Centri di ricerca non commercializzerebbero a sufficienza i loro risultati. Si tratta di un giudizio di valore non sostenuto da analisi e che trascura i punti di forza dell’Europa nonché la stessa evoluzione recente delle autorità di governo statunitensi, attente proprio ai modelli UE.
Il Piano si sofferma su tre questioni che sfidano lo sviluppo dell’Europa – commercio internazionale, energia e contesto geo-politico – ma ne trascura altre tre, decisive per l’indirizzo dell’innovazione e la politica industriale europea: la dinamica demografica e la connessa sfida/opportunità delle migrazioni; lo straordinario impegno di adattamento climatico necessario in vasti territori del continente; la forte crescita già avvenuta nelle disuguaglianze e nelle barriere di accesso al sistema di welfare.
Obiettivo non coerente con l’interesse dell’Europa
L’obiettivo generale del Piano di accelerare la crescita incorpora positivamente l’attuale e riconfermato obiettivo UE di una rapida decarbonizzazione, ma non ricerca appieno le potenzialità di maggiore produttività e trascura i miglioramenti nella qualità della vita che possono scaturire dalla transizione energetica e dalle altre trasformazioni ambientali. I limiti dell’obiettivo si manifestano in modo ancor più evidente sui fronti della sicurezza e del sociale.
La sicurezza è parte dell’obiettivo ma viene interpretata come indipendenza dai paesi “non strategicamente allineati”, assumendo tale categoria come un dato e traducendolo subito come rafforzamento della difesa. L’inclusione sociale, per usare l’espressione prevalente in UE, nel Piano diviene un vincolo anziché un obiettivo. Bisogna “assicurare – argomenta il Piano – che lo Stato sia visto dai cittadini come al loro fianco e attento alle loro preoccupazioni”, che si traduce nel “preservare” – non migliorare – l’inclusione sociale. Non assumendo il punto di vista delle persone, il Piano trascura gli effetti sociali delle proprie proposte e quando ne è consapevole carica sul welfare la responsabilità di rimediare. E non coglie i molteplici aspetti della vita e del lavoro in cui l’accelerazione dell’innovazione tecnologica può accrescere la “competitività” dell’Europa sul piano della produttività tanto economica che sociale.
I rimedi: gravi rischi e necessità di pubblico dibattito
Moltissime le proposte del Piano. Alcune, argomenta il ForumDD, meritano attenta considerazione, soprattutto in materia di decarbonizzazione e transizione energetica. Ma, in generale, i rimedi proposti riflettono i seri limiti della diagnosi e dell’obiettivo.
Sulla questione centrale di come accelerare i processi di ricerca e innovazione, la proposta primaria del Piano è di creare, sul modello USA, grandi “campioni europei” principalmente attraverso meno antitrust, meno regolamentazione e più sussidi. Tale proposta appare, in primo luogo, non motivata sul piano analitico. Inoltre, essa trascura il fatto che, stante l’illimitata mobilità dei capitali, la matrice “europea” di questi campioni non è garanzia che essi restino radicati in Europa. Ed è cieca alle conseguenze negative di crescenti poteri nel mercato in termini sia di prezzi, sia di restrizione delle opportunità di accesso per le imprese piccole, medie e medio-grandi, così rilevanti nei processi innovativi europei, sia di condizionamento della democrazia. Proprio tali conseguenze negative spiegano il ripensamento delle autorità pubbliche USA in merito al proprio modello. Quanto alla proposta di privatizzare la conoscenza prodotta dagli istituti di ricerca pubblici e dalle università, essa cozza con la missione delle università europee di attuare il loro mandato utilizzando le risorse pubbliche con cui sono finanziate per produrre “scienza aperta” nell’interesse collettivo.
La posizione su regolamentazione in campo di Big Data, digitale e dell’intelligenza artificiale è lontana dai valori e dall’approccio dell’Europa, a cui le autorità USA hanno di recente guardato con interesse. La regolamentazione è infatti considerata come un “ostacolo”, anziché come una strada originale, fra USA e Cina, per mettere al centro della transizione digitale i diritti e il benessere delle persone. Il ForumDD ha proposto di riformare quelle regole, ma per raggiungere meglio l’obiettivo, non per accantonarlo.
Il Piano si sofferma poi sulle infrastrutture europee pubbliche di ricerca, ma non è chiaro se l’obiettivo è tirare la volata a grandi oligopoli, con i connessi costi sociali e politici, o al contrario a un sistema di imprese piccole, medie e grandi e al benessere delle persone. Questa seconda è la strada proposta dal ForumDD per dare vita nel campo della salute a un “hub tecnologico sovranazionale” di ricerca e sviluppo, fatta propria dal Parlamento Europeo nelle Raccomandazioni post-Covid e poi discussa e votata da una robusta minoranza di membri del PE nell’iter di approvazione del Rapporto sulla revisione della legislazione farmaceutica.
I rischi del Piano si cumulano con riguardo alla difesa. È il settore principe del Piano, dove promuovere i “campioni europei” e rilassare l’antitrust – come sta già scritto nelle Lettere di Missione per la nuova Commissione -, e dove massimo può essere il contributo all’innovazione tecnologica digitale. Nessuna attenzione vi è nel Piano ai rischi dell’interazione fra segreti militari e proprietà intellettuale, alle alternative per garantire la sicurezza, e alla vera e propria minaccia del “disastroso avvento di un potere fuori posto” – come la definì nel 1961 il Presidente USA Dwight Eisenhower – che può discendere dalla crescita di un “complesso militare-industriale”.
Ogni riferimento all’ambito sociale è segnato dai limiti di diagnosi e obiettivo, per cui il Piano non si dà in genere carico delle conseguenze sulle disuguaglianze delle sue stesse proposte, come nel caso della concentrazione della conoscenza. Ma neppure si pone il tema per cui, se si mira a “campioni europei”, sarebbe almeno il caso di farli diventare anche campioni di responsabilità sociale e ambientale. Né il Piano coglie l’occasione per domandarsi come sostenere il lavoro delle donne. Il tema della formazione in una società in rapidissima evoluzione viene, infine, ridotto al vecchio slogan di formare le skills per renderle adeguate alle esigenze nuove dell’impresa: una logica che nulla apprende dall’esperienza di questi anni in cui è divenuto sempre più chiaro che solo una formazione più generale e critica, specie delle nuove tecnologie digitali, mette il lavoro nella condizione di affrontare cambiamenti improvvisi e non prevedibili e, nel medio-lungo termine, dà il massimo rendimento alle imprese.
Infine, con riguardo alla governance dell’Unione, il Piano enfatizza ragionevolmente la necessità di abbreviare i tempi delle decisioni. Tuttavia, l’arma della semplificazione richiamata nel Piano rischia di avere come contropartita la riduzione della partecipazione, come reso chiaro da diverse proposte. E soprattutto, l’adozione stessa del Piano e dei suoi passi attuativi è affidata al confronto fra la Commissione, sulla base dei mandati già fissati dalla sua Presidente, le sue tecno-strutture e il consesso degli Stati Membri. Il Parlamento europeo e i cittadini e cittadine che lo hanno eletto hanno un peso marginale o nullo in questo processo, non importa se il tema è il futuro dell’Unione e delle vite delle persone. Questo ricorda quanto avvenuto, certamente in Italia, con il Next Generation EU e il PNNR che lo attua.
Per tutte queste ragioni, discutere ora, con onestà e franchezza, del Piano, come il ForumDD ha iniziato a fare, e portare nell’arena pubblica un confronto informato, è così necessario e urgente.